venerdì 22 settembre 2023

IL PARADOSSO CONTROEVOLUTIVO

clip_image002Nonostante la previsione climatica, di elevata probabilità, su quanto accadrà entro una data futura e che è appena qualche generazione a venire[1], si va delineando una situazione paradossale.

Prima del cambiamento climatico indotto dalle attività umane il clima rivestiva, nel contesto dell’evoluzione darwiniana, un elemento di contingenza data la sua bizzarra imprevedibilità, come aveva ben evidenziato il grande biologo evoluzionista Stephen Jay Gould: «Il clima? Niente di più bizzarro e imprevedibile!».

Le mutazioni erano e sono sottoposte al vaglio cieco della selezione naturale anche in base a cambiamenti climatici, la sopravvivenza stessa delle specie dipendeva dall’incontro casuale di due linee contingenti: il clima della regione in cui si nasce e la possibilità o capacità di adattamento a questo. Gli evoluzionisti dicono che se riavvolgessimo il nastro della storia della vita sulla Terra e ripartissimo da zero potremmo avere pressoché infiniti finali diversi da quello attuale. La vita inaspettata che non ci aveva previsto potrebbe essere del tutto diversa, e la paleontologia ci racconta che i tentativi di evoluzione in forme di vita poi abortite lungo il percorso sono tantissimi.

clip_image004Stiamo cambiando il clima e l’ambiente in maniera del tutto prevedibile, e ne siamo consci o per lo meno, molti lo sono, la comunità scientifica innanzi tutto: sappiamo benissimo, abbiamo la scienza e la tecnologia per farlo, dove stiamo andando; siamo al corrente dei danni irreversibili, della causa diretta della cosiddetta sesta estinzione di massa, cioè Homo sapiens; è proprio di oggi la notizia che gli effetti deleteri di queste attività ha letteralmente mutilato l'albero della vita, causando la perdita non solo di specie, i ramoscelli nella metafora dell’albero, ma anche di rami veri e propri che raggruppano più specie imparentate fra loro, i generi: 73 quelli di animali vertebrati che sono già scomparsi dalla faccia della Terra.

Conosciamo con margini di certezza altissimi cosa accadrà, addirittura lo abbiamo misurato e lo vediamo in atto ormai da decenni, ignorando incoscientemente che ne saremo vittime, per di più consapevoli come suicidi, continuando in corsa sulla strada aperta dal cambiamento climatico.

Ed ecco il paradosso.

Qualunque essere vivente è il frutto di una duplice causalità[2], con una parte notevole svolta dal caso. Gli esseri viventi sono sistemi dinamici le cui vicissitudini non possono che obbedire alle leggi del mondo fisico ma, a differenza degli oggetti inanimati, hanno anche un loro percorso indipendente, essendo forzati a seguire i dettami delle istruzioni racchiuse nel loro patrimonio genetico. Un altro grande biologo, Ernst Mayr, avrebbe detto che sono sistemi chimico-fisici spinti da una causalità fisica ma che godono di una sorta di libertà vigilata, essendo forzati a seguire il più fedelmente possibile le istruzioni del proprio genoma.

clip_image006 E se prima eravamo in balia degli eventi contingenti l’enorme vantaggio evolutivo che Homo sapiens ha tratto dalla possibilità di avere anche un’evoluzione culturale da affiancare a quella biologica, quella che lo ha portato dai rudimentali attrezzi di selce alla Luna o in cima all’Everest, questa stessa evoluzione culturale non sta comportando la necessaria reazione, l’intelligenza non sta portando all’attenzione primaria: che la strada che abbiamo intrapreso è deleteria, pur con tutta la consapevolezza che comunque vadano le cose su questo pianeta la vita saprà trovare altre strade, forse la stessa umanità sopravviverà, a costo di perdite spaventose al cui confronto le grandi epidemie di peste sono banali raffreddori e, in caso contrario, la Terra stessa sopravviverà a noi stessi molto prima che, tra un miliardo di anni, la luce del Sole inizi ad indebolirsi cambiando definitivamente il clima del pianeta, ancora una volta, ma facendolo se non altro in modo naturale.

Paradossalmente ci siamo portati su una strada di cui conosciamo benissimo il percorso e non stiamo facendo nulla per cambiarlo, o per lo meno, siamo ancora alle chiacchiere preliminari quando siamo in ritardo spaventoso con i fatti, soprattutto quelli che riguardano l’adattamento.

Qualcuno resterà a raccontarlo. Dopotutto, a causa di un mutamento climatico di segno opposto e del tutto naturale, i vichinghi groenlandesi furono decimati dal ritorno del freddo, quello vero, alla fine del XIII secolo, ma gli indigeni, gli inuit, non ne furono minimamente colpiti.

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[1] Si dice meno di un secolo. Quattro generazioni appena. Guardando al passato persone di cui avete avuto notizie dirette, i bisnonni, o i loro genitori. E noi stessi saremo parte delle storie dei nostri pronipoti, o dei loro figli.

[2] CaUsalità, attenzione, non CasUalità

venerdì 15 settembre 2023

ILCONSENSO SCIENTIFICO

 

clip_image002Premessa

«Che cosa tenta di descrivere la scienza? Il mondo, naturalmente. Di quale mondo si tratta? Del nostro mondo, nel mondo in cui noi tutti viviamo e con il quale interagiamo. A meno che la scienza non abbia fatto degli errori davvero madornali, il mondo in cui noi oggi viviamo è un mondo fatto, tra le altre cose, di elettroni, elementi chimici e molecole di RNA. Il mondo di mille anni fa era un mondo di elettroni e RNA? Sì, anche se all’epoca non lo sapeva nessuno.

Ma se qualcuno avesse pronunciato la parola elettrone nel Medioevo non avrebbe significato nulla; quanto meno, non quello che significa ora. Il concetto di elettrone è il prodotto di dibattiti ed esperimenti che hanno avuto luogo in un contesto storico specifico. Quindi come possiamo dire che il mondo del Medioevo era un mondo di elettroni e RNA? Non possiamo farlo; dobbiamo invece considerare l’esistenza di queste cose come dipendenti dai nostri concetti, dai nostri dibattiti e dalle nostre negoziazioni.

Per qualcuno, le affermazioni fatte nel primo paragrafo sono talmente ovvie che solo una persona completamente confusa potrebbe negarle. Il mondo è una cosa e le nostre idee su esso un’altra. Per altri, gli argomenti del secondo paragrafo mostrano che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato nelle affermazioni apparentemente semplici del primo. L’idea che le nostre teorie descrivano un mondo reale che esiste in modo completamente indipendente dal pensiero e dalla percezione è un errore, collegato ad altri errori riguardanti la storia della scienza e del progresso, e alla fiducia e all’autorità che dovremmo accordare oggi alla scienza.»[1]

Il brano del filosofo della scienza Peter Godfrey-Smith, mette in evidenza le difficoltà e gli ostacoli con cui il mondo scientifico, e non solo, deve confrontarsi per sostenere di continuo l’immagine positiva che la scienza deve avere: operando con modalità cooperative e guidata da spirito critico. Soprattutto in questi tempi, con le interazioni tra scienza e mercato che stanno portando conseguenze di grande portata, diventa essenziale valorizzare l’autodeterminazione della scienza stessa. E allora ecco il tema.


Il consenso scientifico

Consenso - Il CONSENSO è la concordanza tra la volontà o tra le idee di due o più persone: in questo significato, dunque, la parola è un sinonimo di accordo[2]

Ma cosa rappresenta davvero il consenso in ambito scientifico? Cosa significa che una determinata idea, o una teoria, goda del consenso della comunità scientifica? E’ misurabile?

Il tema del consenso, e di conseguenza di un eventuale fine del dibattito scientifico intorno ad un determinato argomento, tratta di soggetti di cui spesso si sente parlare sui media con, o più spesso senza, un reale chiarimento di cosa questo rappresenti. In questi ultimi anni è piuttosto diffusa, ad esempio, una sorta di querelle intorno al consenso scientifico relativo al cambiamento climatico in atto.

Mappa concettuale della parola “Consenso”

Il consenso è dunque un accordo, in particolare un accordo che viene esplicitamente stabilito e quindi, tornando e restando in ambito scientifico, il consenso implica normalmente un accordo relativo ad un particolare approccio, o meglio, su una particolare teoria – scientifica ovviamente.

Potremmo, in ambito scientifico, avere persone non completamente d’accordo tra loro, ma ciò non vieta che possa esserci un certo grado di consenso anche senza accordo completo o senza completa fiducia in una determinata teoria. Il termine grado comporta la misurabilità di qualcosa e laddove i membri di una comunità scientifica abbiano gradi di credenza simili e ragionevolmente alti riguardo a qualche ipotesi, ecco che emerge il consenso - addirittura misurabile con formule matematiche di tipo probabilistico e statistico.

E’ stato usato il termine credenza e occorre fare una brevissima digressione. Credere in qualcosa significa riconoscerla per vera e, senza avventurarci nei labirinti della definizione di verità, spesso vicoli ciechi, è indubbiamente affermabile che la fiducia in una teoria scientifica, o in una sua ipotesi, è un tipo di credenza del tutto analogo a quel che potrebbe essere la credenza in uno spirito maligno che scatena i temporali o una qualche forma di fede religiosa e dogmatica: dimostrabilità a parte la differenza principale è che nelle credenze scientifiche il grado di fiducia è spesso talmente alto, che chi crede è pronto a scommetterci su. E di nuovo la parola grado ha fatto la sua comparsa.

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Karl Popper, a sinistra, e Paul Feyerabend

Non è proprio brainstorming

clip_image008 Tornando alla questione relativa al disaccordo in una comunità scientifica va detto che ciò rappresenta un valore: moltissimi filosofi della scienza, da Popper a Feyerabend non avevano nulla in contrario e ritenevano che il dibattito, la creatività, la libera esplorazione delle idee, fossero alla base di una ricerca scientifica libera e svincolata da pregiudizi di ogni sorta, e soprattutto svincolata dalle aspettative dei singoli ricercatori che spesso influenzano negativamente l’obiettività e senza dimenticare quel certo grado di serendipità che ci racconta la storia della scienza.[3] Nell’esplorazione creativa delle idee il consenso è del tutto opzionale e se per Popper non c’era affatto da preoccuparsi in caso di mancanza di consenso, o se Feyerabend auspicava una sorta di diversificazione permanente, resta evidente che a volte una certa questione scientifica va comunque risolta, ed una volta fatto se ne deve accettare la risoluzione, soprattutto quando questa deve indurre o indurci in azione, quando dobbiamo fare qualcosa guidati dalla scienza. Qualcuno direbbe, nel gergo aziendale in voga negli ultimi decenni, ben vengano Free-Wheeling e Brainstorming, ma senza esagerare, purché se ne esca e si agisca.

(Se d’ora in poi i vostri pensieri andranno alla recente pandemia da Covid-19 o alle tematiche relative al cambiamento climatico, siete giustificati.)

La ricerca del consensoimage

Le informazioni di cui è in possesso una comunità scientifica implicano spesso, se non sempre, la divulgazione ad enti governativi o simili allo scopo di prendere decisioni politiche. E la domanda che gli scienziati si sentono rivolgere è questa: c’è consenso scientifico su questo tema?

Se, come accade nella maggioranza dei casi, c’è accordo completo all’interno di una comunità scientifica, ambito per ambito ovviamente, non c’è problema. Altre volte potrebbe esserci una maggioranza, anche molto ampia, ma anche dei dissidenti. E qui la cosa si complica, perché spesso la dissidenza ha come fonte valenti scienziati o comunque persone addette ai lavori. C’è un modo per complicare la questione, e negli anni passati ne abbiamo viste di ogni tipo. Basterà inserire, spesso strumentalmente o pretestuosamente, persone assolutamente estranee alla comunità e ignoranti in materia, invitandole a…dire la loro: ciò darà l’illusione che esista un dibattito tra posizioni rigorose e non e, peggio ancora, un dibattito tra opinionisti o influencer e ricercatori e scienziati. Ciò ovviamente non va ad escludere dal dibattito terze parti che pur non appartenendo al mondo scientifico, quali sociologi o filosofi, potrebbero comunque fornire indicazioni preziose. L’esclusione senza appello è per quei personaggi che buona parte dei media sono soliti invitare in trasmissione al solo scopo di aumentare l’audience.

E’ sempre la scienza ad indicare la strada da percorrere nel caso in cui non ci sia completezza di consenso. Senza entrare nei suoi complessi dettagli il Teorema di Bayes, associato alle idee di Frank Ramsey, indica quale azione migliore scegliere pur considerando che il mondo potrebbe essere fatto diversamente da come lo si ritiene: è questione di scelta delle possibilità più probabili e quali meno, cose su cui le persone saranno in disaccordo quando non c’è consenso. In precedenza è stata associata alla credenza la possibilità che ci si possa scommettere su e una scommessa è guidata da parametri statistici di maggiori o minori probabilità che eventi possano accadere. Ecco perché è possibile utilizzare metodi analitici, scientificamente validi, per individuare le migliori opzioni relative al consenso. Ovviamente quando il disaccordo è molto forte, e complicato dal rumore di fondo delle migliaia di dissonanze amplificate e rilanciate dai social, il problema non sarà risolto in fretta anche se spesso può sussistere un certo grado di urgenza, soprattutto nel calcolare prima possibile quali sono le scelte dagli esiti sicuramente disastrosi.

Chiudere il dibattito

clip_image012Se la questione oggetto di dibattito scientifico è risolta sarà la stessa comunità scientifica a dichiarare che il dibattito si è concluso, con una sorta di consenso spontaneo, oppure occorrerà un’ulteriore valutazione della serietà delle incertezze residue, con un consenso curato nel modo in cui debbano essere fatte dichiarazioni pubbliche. L’attenzione maggiore va ovviamente alle tempistiche relative alla conclusione del dibattito: se precoce potrebbe avere come conseguenza, dagli esiti anche drammatici, quali quelli di una decisione politica presa sulla base di un’idea scientifica errata o incompleta; se tardivo, comporterebbe spreco di tempo e risorse, e ancora portare a decisioni politiche più o meno gravi, oltre alla perdita di progresso scientifico. Tardivo o precoce sono entrambi dannosi.

In passato queste decisioni erano prese a porte chiuse, e altrettanto privato era il confronto politici-scienziati. Oggi, nelle moderne società democratiche, con i flussi di informazioni liberi, e con una comunità scientifica interconnessa a livello internazionale, ciò non è possibile e alla comunità scientifica viene spesso richiesto di dire le cose nella maniera più chiara possibile. In altre parole le si chiede responsabilità pubblica, e se il consenso spontaneo riguarda soltanto le interazioni sociali tra membri della comunità scientifica, e loro posizioni individuali, il consenso curato coinvolge la società più ampia, di cui la comunità scientifica è parte. E ancora, oggi abbiamo moltissimi consumatori esterni di informazioni scientifiche, tra cui migliaia di ottimi divulgatori ed esperti, con cui la comunità scientifica deve confrontarsi raggiungendo un compromesso: impedire ad esempio che alcuni individui ossessionati possano boicottare o fermare l’uso ragionevole di una conoscenza conquistata faticosamente.

Un esempio dal passato

clip_image014C’è un caso famoso e drammatico su cui riflettere che viene dal passato recente e che riporterà alla mente le dolorose conseguenze di alcune scelte politiche di minoranza, le scelte novax per esempio, o quelle che hanno seguito l’onda della cosiddetta immunità di gregge senza sapere affatto cosa ciò sia: scelte altrettanto sbagliate, e scellerate, fatte in occasione della pandemia da Covid-19 e, in senso più generale, quelle che non sono state o che non saranno fatte, nel caso dei processi di reazione e/o adattamento ai cambiamenti climatici[4].

Nei primi anni ’80 l’epidemia di AIDS, che allora non aveva nemmeno questo nome, si diffondeva come malattia che colpiva soprattutto gli omosessuali maschi, gli emofiliaci e i consumatori di droga per via endovenosa, e sempre nello stesso periodo si scoprì che un retrovirus poteva esserne causa[5].

Nonostante le evidenze si andassero accumulando fin dall’inizio ci furono alcuni dissidenti che ipotizzarono, in base ai loro studi, che il retrovirus HIV non aveva nulla a che fare con l’AIDS, formulando ipotesi diverse che potevano ragionevolmente tenere aperto il dibattito scientifico nonostante un largo consenso per l’ipotesi Gallo-Montagnier. Ciò nonostante, nel 1988 la National Academy of Sciences degli Stati Uniti elaborò una dichiarazione riassuntiva ove si affermava che «l’evidenza che l’HIV è la causa dell’AIDS è scientificamente conclusiva». Col senno di poi questa presa di posizione può essere considerata del tutto precoce perché gli esperimenti, fondamentali e determinanti per fare affermazioni di causa-effetto, non avevano chiarito ancora i motivi per cui l’HIV potesse causare molti danni.

Pochi anni dopo l’epidemia di AIDS nell’Africa subsahariana divenne un problema enorme e l’allora governo del presidente Mbeki in Sud Africa prese posizioni poco ortodosse, fino ad includere nel 2000 all’interno del comitato scientifico consultivo il biologo Peter Duesberg, principale rappresentante delle posizioni dissidenti sull’HIV. Il governo dichiarò di non voler procedere nell’affrontare l’epidemia con i farmaci retrovirali usati altrove, di essere interessato a riflessioni e altre opportunità.

Paradossalmente questo atteggiamento scientifico può essere appropriato in qualche modo, quando il consenso non è unanime e la dissidenza viene da fonti piuttosto autorevoli e ascoltabili; ma in questo caso, la posizione durata circa 3 anni, fino al 2000, provocò direttamente la morte di diverse centinaia di migliaia di persone, come risultato delle decisioni del governo di Mbeki.

Nulla è certo, la storia mostra che possono arrivare grandi sorprese, «la cosa importante è non smettere mai di interrogarsi» disse una volta Albert Einstein, ma dobbiamo anche agire, prendere decisioni e in questo caso l’evidenza che l’HIV era la causa dell’AIDS era forte e si era accumulata regolarmente nel corso degli anni ’80 e ’90. La situazione di emergenza imponeva che le si desse seguito accettandola.

Come trattare la malattia è un’altra storia. L’unico farmaco allora in uso era il Retrovir ed è un farmaco estremamente tossico. Pur accettando le teorie dominanti c’erano forti sospetti sulle compagnie farmaceutiche che giustificavano la dissidenza se non altro allo scopo di incentivare la ricerca di altre opzioni. Oggi si conoscono molto in dettaglio i modi in cui l’HIV porta alla malattia e già dalla metà degli anni ’90 si iniziarono a sviluppare trattamenti farmacologici migliori.

 

clip_image016La morale

Non è dato sapere se questo caso emblematico di ricerca del consenso scientifico possa fornire spunti per altri contesti, per qualcosa che ci tocca da vicino nel tempo e nello spazio come premesso all’inizio del paragrafo. Forse. Ma sicuramente emerge che c’è un lato negativo dell’attraente idea che sarebbe sempre bene mantenere una mentalità aperta ed evitare di chiudere il dibattito. Va bene continuare ad interrogarsi, va bene la ricerca continua di nuove idee[6] ma occorre anche e soprattutto agire.

Sarebbe fantastico continuare ad interrogarsi se le politiche fossero guidate dal peso di opinioni esperte, Franco Battiato avrebbe detto il centro di gravità permanente della comunità scientifica, e soprattutto senza minarle con uno scetticismo, idiota ed inutile molto spesso o ancora peggio, alimentato da pressioni politiche interessate.

Purtroppo, come accennato in precedenza, è diventato sempre più difficile nei casi recenti, soprattutto nell’importante caso del cambiamento climatico accelerato, oltre ogni ragionevole dubbio, dalle attività di origine antropica. Ma la ricerca di consenso, in questo caso, per quanto le evidenze siano notevoli e consolidate, vede numerosi tentativi di tenere il dibattito ancora aperto, a tratti spalancato verso strade che comporteranno soltanto perdite di tempo e spreco di risorse, soprattutto per quanto riguarda la tematica più importante da sottoporre all’attenzione di tutti: cambiamento va bene, ma di adattamento quando ne trattiamo?

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[1] Peter Godfrey-Smith. “Teoria e realtà. Introduzione alla filosofia della scienza.

[2] Enciclopedia Treccani online

[3] Telmo Pievani ha scritto un bellissimo libro in proposito, intitolato appunto “Serendipità”.

[4] In questo caso la tematica è vastissima e l’affermazione va intesa come un’ampia generalizzazione.

[5] Molti ricorderanno la disputa per la paternità della scoperta tra l’americano Robert Gallo e il francese Luc Montagnier; di quest’ultimo si ricorderanno anche le dichiarazioni choc che rilasciò all’inizio del 2022 sull’inutilità e addirittura sulla criminalità del vaccinare i bambini, dichiara

[6] Anche se, in questo mondo reale, la competizione, ancorché cooperativa, e la ricerca continua di fondi per la ricerca rendono la stessa spesso molto selettiva.

NOTE A MARGINE DEGLI EVENTI ALLUVIONALI DEL MAGGIO 2023 IN EMILIA ROMAGNA

clip_image002Con l’autunno si iniziano a temere gli effetti di eventi meteorologici estremi, a causa della naturale propensione meteorologica che vede, mediamente, piovere di più alle nostre latitudini in quel periodo dell’anno. Ed è spontaneo andare ai ricordi dei recenti episodi emiliano-romagnoli, delle alluvioni in Francia e delle cronache di queste ore del disastro, soprattutto umanitario, che ha colpito la Libia in questi giorni, e poco cambia anche considerando che in quest’ultimo caso la stragrande maggioranza delle vittime è stata dovuta al cedimento delle dighe, dighe che avrebbero dovuto proteggere Derna e sono invece state la sua rovina.

Ecco perché, a seguito della lettura di un interessante articolo, proprio relativo alle tristi cronache ambientali nazionali, l’attenzione ritorna su quel che troppo spesso viene utilizzato come alibi a coprire le necessarie azioni preventive.

Premessa

Mi scuseranno gli autori dell’articolo a cui mi sono ispirato per questa premessa: dopo tutto per raccontare dei fatti non ci sono molti modi.

In due distinti periodi dello scorso mese di maggio vaste aree dell’Emilia Romagna sono state interessate da due eventi meteorologici estremamente intensi, verificatisi in breve successione, il primo dall’1 al 3 ed il secondo il 16 al 18[1], comportando precipitazioni eccezionali, che hanno superato ampiamente la soglia dei 400 millimetri di pioggia[2]. I valori riportati dalla fitta rete di stazioni di monitoraggio pluviometrico, con dati usufruibili in tempo pressoché reale grazie ad Internet, hanno tutti registrato valori significativi. I fenomeni atmosferici hanno interessato soprattutto le zone pedemontane, collinari e pedecollinari, con quantità leggermente inferiori in pianura.

La configurazione meteorologica europea durante il mese di maggio ha subito un cambiamento sostanziale, con l'instaurarsi di anticicloni che si estendevano dall'Atlantico alla Scandinavia, mentre contemporaneamente si attestavano zone depressionarie sull'Italia e sul Mediterraneo centrale. Questa particolare configurazione ha portato un flusso frequente di precipitazioni abbondanti su gran parte della penisola, contribuendo a mitigare la preoccupante siccità che aveva afflitto sia la regione che l’intera Italia nell'ultimo anno e mezzo. Purtroppo le precipitazioni intense non contribuiscono al rifornimento dei suoli profondi e delle risorse idriche sotterranee che hanno invece bisogno di piogge più lente e costanti, nonché delle acque di fusione della neve, che ha scarseggiato sia nelle Alpi che negli Appennini durante l'ultimo inverno.

Da un altro punto di vista, sfortunatamente, questa situazione atmosferica ha portato episodi alluvionali straordinari, che hanno colpito in particolare l'Emilia orientale e la Romagna durante i cicli intensi di piogge nei due periodi di maggio indicati.

Considerazioni

Che il cambiamento climatico in atto, osservabile e misurabile ormai oltre ogni ragionevole dubbio, possa portare direttamente a fenomeni meteorologici estremi è un fatto; che i fenomeni climatici relativi alle oscillazioni di El Niño possano comportare disastri meteorologici anche a distanze enormi dal Pacifico è un altro.
Ma chiamare in causa sempre e comunque, a mo' di alibi, il cambiamento climatico sta diventando quasi una moda.

Che le precipitazioni del mese di maggio 2023 siano state del tutto eccezionali, soprattutto in termini di rapidità con cui sono andate cumulandosi e concentrandosi sul territorio, è comunque evidente dalla lettura dei dati[3]. Le piogge del mese hanno raggiunto un valore totale medio regionale di 250 mm, superiore di 175 mm rispetto al valore medio climatico (+230%), valore più alto dal 1961; anche rispetto al valore medio, l’anomalia è di circa +173 mm. A livello territoriale, si riscontrano anomalie eccezionali sulle colline e sui rilievi tra Bologna, Forlì-Cesena e Ravenna, anche lungo la costa, con picchi fino a +500% rispetto alla media 2001-2020, mentre nella parte più occidentale della regione le anomalie, pur presenti e positive, sono molto più contenute, intorno a +50%.

L’osservazione dei grafici[4] delle precipitazioni cumulate e dell’anomalia delle precipitazioni totali mensili rispetto al 2001-2020 (in mm di pioggia) sono autoesplicative.

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clip_image006

clip_image008L’articolo
Sul numero
3/2023 della rivista "Geologia dell'Ambiente" edita dalla SIGEA - Società Italiana di Geologia Ambientale, il primo articolo (pag. 2) ripercorre gli eventi alluvionali del maggio 2023 che interessarono l'Emilia Romagna, con danni diretti stimabili in circa 15 miliardi di euro, 15 vittime e decine di migliaia di evacuati.
Eventi eccezionali quelli dell'1-3 e del 16-18 maggio ma, come vedremo, non certamente unici o imprevedibili, né non ricordabili a memoria d'uomo, nonostante questa sia spesso molto corta.

Gli autori riportano che è bastata una semplice ricerca a tavolino di pochi giorni, condotta analizzando i documenti estratti da varie fonti pubbliche, per ritrovare dozzine di episodi alluvionali dovuti a fenomeni meteorologici intensi, episodi accompagnati da rotture degli argini di numerosi corsi d’acqua con frequenza pressoché annuale; solo nel corso del XVIII secolo il fiume Lamone (uno dei fiumi che ha rotto nel maggio 2023 allagando Faenza), ricordano le cronache, ruppe ben 22 volte in 60 anni, citando inoltre episodi del tutto analoghi a quelli di quest’anno. Il più simile nel 1939, persino nei periodi, con due episodi nel mese di maggio, caratterizzato da precipitazioni estese e fino a 400-500 mm sull’Appennino Tosco-Romagnolo che comportarono lo sconvolgimento dell’intero territorio romagnolo con associate perdita della produzione agricola, di capi di bestiame morti per annegamento e disfacimento pressoché completo della rete viaria. In definitiva, dozzine di eventi fotocopia.

Previsione, prevenzione e allertamento

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Anche soltanto intuitivamente emerge che gli episodi del maggio 2023 possono essere annoverati tra quelli possibili, anche più volte l’anno. Ciò comporta un certo grado di prevedibilità, pur considerando che molto spesso i tempi con cui si sviluppano le celle temporalesche -che danno origine ai cosiddetti downburst- sono strettissimi; ma con accurate operazioni di monitoraggio, che in questo caso non sono certamente mancate, è possibile quanto meno mitigare i danni e soprattutto consentire alla popolazione un certo grado di salvaguardia. Va detto che ARPAE emanò due bollettini di allerta per le onde fluviali di piena dapprima arancione e poi rossa per gli episodi dell’1-3 maggio e direttamente rossa per quelli del 16-18. Se così non fosse stato, come ad esempio nel 1939, le vittime e il numero di sfollati sarebbero probabilmente state molte di più.

Pur considerando che l’anomalia nelle precipitazione del maggio 2023 ha di gran lunga superato la media storica il fenomeno, con intensità minori o a volte analoghe, è storicamente conosciuto in quelle stesse regioni, e in un certo qual modo, peggiorante al crescere delle condizioni generali dovute all’aumento della antropizzazione del territorio, del conseguente incremento del consumo del suolo, dell’abbandono delle zone montane e pedemontane e della relativa cura delle aree boschive e di sottobosco, che spesso fanno da freno al deflusso delle acque meteoriche. Queste condizioni non possono che aver peggiorato o intensificato gli effetti di eventi meteorologici eccezionali, ma non unici lo si ripete, in oggetto.

 

Analisi dei dati

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Al conteggio estratto dalla lettura dell’articolo sono stati aggiunti i due episodi del 2023 per un totale di 60 episodi documentati dal 1636 al 2023, riassunti nella tabella. Per il 10 percento del totale degli episodi riportati non è noto il mese dell’accadimento e mancano inoltre riferimenti di dettaglio per le 22 esondazioni del Lamone riportate per circa 60 anni del XVIII secolo.

Da un’analisi numerica degli episodi riportati è emerso come la maggioranza degli episodi alluvionali a seguito di intense ed anomale precipitazioni, siano, come attendibile, concentrati nei periodi autunnali, mediamente da fine settembre a parte di dicembre, con una media di circa 8 episodi al mese, notoriamente più piovosi alle nostre latitudini con dei picchi in novembre (con ben 12 episodi su 60 pari al 20 percento della serie); non va però trascurata la numerosità dei mesi di maggio e gennaio, con 6 e 5 episodi rispettivamente.

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Conclusioni

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La cosa importante che emerge abbastanza chiaramente da questa analisi essenziale è che la regione non è affatto nuova ad episodi eccezionali o comunque assimilabili, con un frequenza ed una conoscenza tali, soprattutto per gli ultimi decenni, da non rendere tollerabile demandare a Giove pluvio la causa di questi disastri che ogni anno colpiscono il nostro territorio; ed altrettanto intollerabile è l’appello all’ineluttabilità degli eventi perché causati dal cambiamento climatico che ha, molto probabilmente e quasi sicuramente, un certo grado di corresponsabilità, ma non ne è certo la causa primaria. Senza per questo negare l’evidenza, lo si ribadisce, che il cambiamento è in atto e che ancora oggi, a decenni di distanza dai primi allarmi, molto poco si è fatto in termini di azioni di contrasto e soprattutto nulla si sta facendo in tema di adattamento al cambiamento consci della storia climatica del nostro pianeta e delle conseguenze che questa ha avuto sulla distribuzione di popoli e risorse. E adattamento significa anche prevenzione e, laddove possibile, previsione allo scopo di mitigare i danni di questi disastri. Il disastro emiliano-romagnolo è un ulteriore terribile test di un dissesto non soltanto territoriale, ma anche amministrativo. Sembra che a nulla siano valse le insistenze presso i governi che si sono succeduti negli anni affinché siano rafforzati i servizi tecnico-scientifici di Stato, fulcro necessario di un coordinamento delle azioni di prevenzione e di difesa del territorio. Nonostante questo la tendenza, ormai acclarata, è stata quella di delegare tutto agli enti locali senza però assisterli adeguatamente e, gravissimo ancorché endemico, quella di emarginare i servizi tecnico-scientifici di Stato e le professioni a questi associate.

Aspettando la prossima alluvione…


[1] L’articolo indica 16-17 ma i dati ARPAE (Agenzia Prevenzione Ambiente Energia Emilia Romagna) sono relativi all’intervallo 16-18.

[2] Ogni millimetro in altezza di pioggia caduta corrisponde ad un litro d’acqua per ogni metro quadro di superficie.

[3] Fonte ARPAE (Agenzia Prevenzione Ambiente Energia Emilia Romagna)

[4] Ibidem