lunedì 25 luglio 2022

Come sulla Terra si formò ossigeno in atmosfera e il Grande Evento Ossidativo.

Dai fotoni all’ossigeno. La fotosintesi.

clip_image002In qualche modo, da qualche parte, le macchine biologiche devono acquisire energia dall'ambiente circostante al fine di generare l'energia intracellulare, altrimenti la vita cesserebbe all'istante. L’energia che anima tutte le forme di vita sulla Terra deriva dal Sole. L’evoluzione che ha portato alla fotosintesi clorofilliana ha prodotto le reazioni biochimiche tra le più complesse esistenti in natura. Nelle cellule eucariotiche fotosintetiche, come le alghe e le piante superiori, le nanomacchine coinvolte nel processo di fotosintesi si trovano solo nei cloroplasti, organelli specializzati in questa funzione. Ma i meccanismi basilari della fotosintesi, tuttavia, sono già presenti nei batteri che anziché scindere l'acqua utilizzano l'idrogeno molecolare (H2).

Il processo fotosintetico ha del magico. La luce viene assorbita e si crea un legame chimico. L'energia delle singole particelle di luce, i fotoni, viene trasformata in carboidrati, zuccheri, la sostanza che ogni organismo vivente utilizza come fonclip_image006te di energia.

L'energia dei fotoni crea legami chimici; viene assorbita dalla clorofilla e può spingere un elettrone fuori dalla molecola della clorofilla, che per circa un miliardesimo di secondo si carica positivamente. Ma all'interno di una cellula non possono esistere elettroni liberi e quindi, una volta espulso, questo deve andare da qualche parte e legarsi ad altre molecole: raramente torna dov'era, più frequentemente l'energia luminosa spinge elettrone su un'altra molecola che, pur non avendone bisogno, lo accetta. La carica positiva che viene a crearsi nella molecola della clorofilla corrisponde alla creazione di una sorta di «vuoto» che spinge la molecola della clorofilla a colmarlo, prendendo elettroni da molecole vicine. In tutti gli organismi aerobi, dai cianobatteri (le cosiddette alghe azzurre o verdi-azzurre) alle piante superiori, l'elettrone viene preso da un quartetto di atomi di manganese. Dopo aver ceduto i loro elettroni anche gli atomi di manganese si caricano positivamente e devono colmare i vuoti: trovando acqua nei pressi ne estraggono quattro elettroni da due molecole di acqua servendosi sempre della spinta di altrettanti fotoni. Man mano che l'acqua perde elettroni alla fine resta soltanto ossigeno in cerca di elettroni, cosa che per sua natura gli riesce benissimo, altrimenti non sarebbe come noto un ossidante, termine che deriva proprio da ossigeno, ovvero una molecola in grado di estrarre elettroni da altre molecole. Guardando a ritroso è come ci fosse un clip_image004flusso continuo di elettroni dall’acqua alla clorofilla. Ci sono comunque, come vedremo, altri tipi di batteri in grado di estrarre elettroni non dall’acqua ma da sostanze come l’acido solfidrico, alcuni carboidrati (CH2O), l’ammoniaca (NH3) l’ammonio (NH4-) o il nitrato (NO3-).

clip_image008Ma resta il fatto che tutte le sorgenti di elettroni sono comunque esterne alla cellula ed al termine del processo ai lati della membrana[1] si forma un eccesso di cariche elettriche positive da un lato e di cariche negative dall'altro, una mini batteria in grado di produrre ATP, la moneta energetica di tutti i viventi e prodotto con un processo che ha luogo in tutti gli organismi fotosintetici[2].

I protoni che passano dal lato positivo a quello negativo incontrano gli elettroni e formano atomi di idrogeno che però non potendo circolare liberamente nella cellula li vede legati entrambi ad una specifica molecola (NADP, che si trasforma in NADPH e funge da vettore dell’idrogeno). Se l’idrogeno fosse libero nella cellula il volume della “bolla” sarebbe sufficientemente piccolo da consentirgli di sfuggire dalla stessa. E’ questo l’idrogeno che reagisce con l’anidride carbonica e forma gli zuccheri.

Tutte le cellule sono accomunate da un apparato simile, preposto alla sintesi proteica. Tutte le cellule sono dotate di un qualche apparato di trasduzione energetica che si fonda sulla sintetizzazione di ATP. Tutte le cellule possiedono un qualche meccanismo deputato alla donazione e alla sottrazione di elettroni e protoni da e verso un vettore idrogeno. Tutte le cellule creano campi elettrici nelle membrane che producono e consumano ATP. Infine, tutte le cellule dipendono in ultima analisi dagli organismi fotosintetici, che convertono l'energia solare creando campi elettrici alla base del flusso di elettroni e protoni. Senza le cellule la vita su questo pianeta non esisterebbe e la vita animale, così come la conosciamo adesso e la interpretiamo non esisterebbe senza le cellule fotosintetiche, le uniche in grado di produrre materia organica.

I primi microbi erano incapaci di scindere l'acqua ed operavano in ambienti privi di ossigeno (anaerobi). L'acqua è una fonte ottimale di idrogeno, da sempre ce n'è in abbondanza ed è di gran lunga la fonte donatrice di elettroni maggiore, ma per estrarre idrogeno dall'acqua occorre molta energia. L'evoluzione che portò alla comparsa dei cianobatteri mise a loro disposizione i mezzi per scindere l'acqua e generare ossigeno come prodotto di scarto.

Arrivano i cianobatteri

clip_image010Molto tempo dopo la comparsa delle prime forme di vita apparve ossigeno libero in atmosfera.

Come abbiamo visto per produrre ossigeno occorrono i processi fotosintetici, ma questi da soli non bastano a giustificare l'accumulo di ossigeno in atmosfera e che attualmente rappresenta il 21% della sua composizione. Così il caso ed una serie di contingenze possono spiegare come sia stato possibile che questo accumulo si sia poi effettivamente prodotto: evento che se da una parte ha dato il via all'evoluzione della vita sulla Terra così come la conosciamo, dall'altra ha creato le condizioni per la prima catastrofica estinzione di massa della sua storia.

clip_image012Nell'ultimo quarto del XVIII secolo scienziati come Priestley, Lavoisier e infine Ingenhousz portarono a scoprire la presenza dell’ossigeno in atmosfera e il ruolo delle piante nella sua produzione, pur non comprendendone i meccanismi.

Non sappiamo quando comparve il primo microbo in grado di scindere l'acqua ed estrarre da una parte gli elettroni necessari a generare l'energia e dall'altro l'ossigeno come prodotto di scarto del ciclo fotosintetico. I cianobatteri sono gli unici procarioti in grado di produrre clorofilla di tipo “a”, il pigmento verde usato dagli organismi produttori di ossigeno per scindere l'acqua; e sono gli unici con due centri di reazione fotosintetica. I cianobatteri come sappiamo usano l'energia solare per scindere idrogeno in protoni (H+) ed elettroni producendo zuccheri. C'è un altro tipo di batteri, quelli verdi sulfurei, che possiede il secondo centro, che opera anche in assenza di luce, ma non producono ossigeno né scindono acqua: scindono acido solfidrico (H2S). Non sappiamo quando i due centri di reazione si siano fusi in un unico organismo ma sappiamo che questi due tipi sono sensibili all'ossigeno. La nanomacchina che qualcuno chiama apparato fotosintetico ossigenico e che in definitiva spinge gli elettroni dall'acqua e li sposta con una complicatissima serie di reazioni biochimiche, per funzionare richiede la regolazione ed il coordinamento di circa 150 geni diversi: questa si è evoluta una sola volta. È la più complessa macchina di traduzione energetica presente in natura e apparve la prima volta con i cianobatteri che oggi sono presenti nei nostri mari con qualcosa come 1.000.000.000.000.000.000.000.000 (1024) esemplari.

I cianobatteri si sono evoluti una sola volta. Ma quando?

clip_image014 Se all'inizio degli anni ‘90 si ritrovarono, in alcune rocce dell'Australia nord-occidentale risalenti a 3,5 miliardi di anni fa, presenze di fossili che somigliavano a catene di cianobatteri, all'inizio del ventunesimo secolo altre ricerche dichiararono che non si trattava di fossili ma di depositi minerali. Se comunque ancora non c'è consenso sulle date, esprimendo molta cautela sulla loro presenza già 3,5 miliardi di anni fa, si hanno certamente prove che almeno 2,7 miliardi di anni i cianobatteri erano presenti certamente. Certamente nei primi 4 miliardi di anni di vita della terra non c'è traccia di vita animale e le prime tracce di fossili animali risalgono a 580 milioni di anni fa.

Gli animali hanno bisogno di ossigeno e questo compare solo con i cianobatteri: ma com'è possibile che questi da soli abbiano finito col produrre una quantità di ossigeno sufficiente a provocare l'impatto clamoroso che ebbe il Grande Evento Ossidativo[3]? Questo evento, unico nella storia della Terra, avvenuto più o meno 2,4 miliardi di anni fa e che abbracciò un periodo di circa 100 milioni di anni, è noto anche come catastrofe dell’ossigeno e comportò la pressoché totale scomparsa delle prime forme di vita anaerobiche, esclusivamente batteriche, che popolavano la Terra da tempo e la cui evoluzione ha comunque portato alla comparsa dei cianobatteri.

Un altro aspetto ancora da chiarire e che lega la comparsa dei cianobatteri al GEO è l'intervallo di tempo intercorso tra la comparsa dei cianobatteri e l’evento stesso: se i cianobatteri erano già presenti 3,5 miliardi di anni fa e il GEO è quasi certamente avvenuto intorno ai 2,4, come giustificare l'enorme sfasatura di quasi 3 miliardi di anni tra la comparsa dei microbi che producono ossigeno e la comparsa delle forme animali 580 milioni di anni fa? E se invece i cianobatteri arrivarono più tardi, ma non oltre 2,7 miliardi di anni fa come attestato dalla presenza di particolari isotopi dello zolfo, perché occorsero 300 milioni di anni per avere ossigeno libero in atmosfera? Ciao nonostante sono molte le prove, anche indipendenti, che indicano che prima di 2,4 miliardi di anni fa l'atmosfera era del tutto priva di ossigeno libero, e dopo comparve.

Arriva l’ossigeno

clip_image016L'ossigeno è presente da 2,4 miliardi di anni, la sua concentrazione allora era meno dell'1% dell'attuale 21%, insufficiente alle innescare l'evoluzione degli animali.

Per dotare di ossigeno l'atmosfera di un intero pianeta gli organismi che lo producono devono prima morire. Un paradosso, ma solo apparente.

L'attuale valore della concentrazione di ossigeno è circa il 21% dei gas presenti in atmosfera (gli altri sono essenzialmente azoto molecolare e anidride carbonica), Ed è un valore in equilibrio: l'equilibrio tra organismi produttori e organismi consumatori.

Qualunque sia stato il valore iniziale sarebbe comunque stato in equilibrio dal momento in cui comparvero organismi animali, perché affinché il tenore di ossigeno in atmosfera possa aumentare deve intervenire qualcosa a scombinare l'equilibrio tra fotosintesi e respirazione. 2,4 miliardi di anni fa c'erano solo microbi. Tutta la vita era confinata negli oceani e in altri ambienti acquatici, e l'ossigeno è un prodotto di scarto della fotosintesi.

Come abbiamo visto gli organismi scindono acqua per ricavare idrogeno che serve a produrre materia organica. Affinché si accumuli ossigeno in grandi quantità parte della materia organica prodotta dai microbi deve venire nascosta agli organismi respiranti. Una piccolissima frazione di fitoplancton, cianobatteri compresi, sprofonda nel fondale marino meno profondo, la cui percentuale è inversamente proporzionale all’altezza della colonna d’acqua: quanto meno è profondo il mare tanto maggiore sarà la percentuale di carbonio organico che arriverà al fondo. Già oltre i 1000 metri di profondità il carbonio organico non riesce a raggiungere il fondo. Ma anche nei mari meno profondi e lungo le coste meno dell’1% della materia organica prodotta da fitoplancton raggiunge il fondo, e solo l'1% di quell'1% viene sepolto nei sedimenti, quindi soltanto lo 0,01% della materia organica si deposita sul fondo: ma in milioni di anni anche quantità così apparentemente esigue diventano importanti.

Se la materia organica non venisse sepolta sarebbe di nuovo respirata e non si avrebbe nessuno, o quasi, accumulo di ossigeno. E se questa materia accumulata nei continenti non fosse sollevata dai processi tettonici a creare gli stessi questa sprofonderebbe, riscaldandosi, e sarebbe rilasciata sotto forma di anidride carbonica dalle esalazioni vulcaniche, e l'ossigeno non si accumulerebbe affatto.

Così, via via che la materia organica si deposita lentamente nelle rocce sedimentarie a formare i continenti, fuori delle acque, l'ossigeno aumenta la sua concentrazione.

Se i cianobatteri sono comparsi poco prima del GEO allora sono bastati circa 100 milioni di anni per avere l’accumulo di ossigeno libero in atmosfera. Ma, se sono comparsi prima, perché sono occorsi centinaia di milioni di anni prima che l'ossigeno diventasse un gas tanto abbondante nell'atmosfera?

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L’ossidazione del ferro e l’ossidazione microbica

Tre miliardi di anni fa gli oceani contenevano grandi quantità di ferro disciolto e nel corso delle diverse centinaia di milioni di anni successive all'evoluzione dei cianobatteri l'ossido di ferro (la ruggine) formatosi dalla reazione con l'ossigeno precipitò quasi ovunque in tutti gli oceani. Per quasi due miliardi di anni l'ossigeno continuò a reagire col ferro senza alcun intervento biologico, ma a conti fatti si evince che il processo da solo non avrebbe potuto impedire la comparsa di ossigeno in atmosfera per centinaia di milioni di anni: cos'altro impediva l'accumulo di ossigeno in atmosfera?

clip_image020Un altro elemento presente negli oceani prima che si producesse ossigeno era lo zolfo, per lo più sotto forma di acido solfidrico (H2S), emergente dai camini idrotermali che sul fondo degli oceani rilasciano acqua a 300 °C di temperatura e che contiene grandi quantità di solfuri e ferro, che una volta raffreddati formano camini minerali di pirite (il cosiddetto oro degli sciocchi).

Come abbiamo visto in presenza di ossigeno alcuni microbi hanno evoluto meccanismi in grado di estrarre idrogeno dall'acido solfidrico e fissare l'anidride carbonica producendo molecole organiche. Il tutto al buio, nelle profondità degli oceani usando il gradiente elettrico dei fluidi e dei gas provenienti dai camini ricchi di elettroni e le altre molecole povere di elettroni presenti nell’acqua che li circonda; il tutto con un fabbisogno energetico che è soltanto il 10% di quello che occorre invece per scindere l'acqua.

Ma questa ossidazione microbica, anche se unita a quella del ferro, non basta a spiegare i 300 milioni di anni necessari a far sì che l'ossigeno diventasse abbondante in atmosfera.

Il ruolo dell’azoto

clip_image022Molto prima della comparsa di ossigeno libero si erano evoluti alcuni microbi in grado di aggiungere idrogeno all'azoto presente in atmosfera e scioglierlo in acqua. L'azoto è il gas più abbondante tra quelli atmosferici ed è molto stabile: l'associazione dell'azoto con l'idrogeno dà come prodotto l'ammonio (NH4-), un atomo di azoto legato a quattro atomi di idrogeno che risulta molto stabile in assenza di ossigeno, ma quando questo iniziò ad essere disponibile per i batteri si sviluppò una serie di meccanismi che consentiva loro di togliere idrogeno all'ammonio e usarlo per fissare l'anidride carbonica in materia organica, senza energia solare, usando il gradiente elettrico tra una molecola ricca di elettroni come l'ammonio ed una povera di questi come l'ossigeno.

Questi microbi esistono se c'è ossigeno libero in atmosfera, in caso contrario altri microbi sono in grado di usare il nitrato (NO3-) in un processo analogo alla respirazione e producendo azoto molecolare come scarto.

Fu il ciclo dell'azoto, dominato dai microbi, ad impedire per lunghissimo tempo di avere ossigeno libero in atmosfera.

I cianobatteri iniziarono a produrre ossigeno almeno 300 milioni di anni prima del GEO. L'ossigeno veniva usato da altri microrganismi per trasformare l'ammonio in nitrati e successivamente in azoto molecolare, e fu in questo modo che ogni oceano perse ogni fonte di azoto fisso.

Lo schema riportato rappresenta il ciclo dell’azoto oggi.

Senza azoto fisso il fitoplancton non era in grado di produrre molta materia organica, nessun organismo può produrre amminoacidi o acidi nucleici se non c’è azoto legato ad idrogeno, e a stento si sarebbe formato il carbonio organico. E come abbiamo visto senza precipitazione di carbonio organico non avrebbe potuto accumularsi ossigeno in atmosfera. Come se si cercasse di mantenere anossico il sistema microbico degli oceani primordiali. La vita ebbe quasi sicuramente origine in condizioni anossiche e il metabolismo dei microbi la mantenne così per tutta la sua prima metà di storia.

Comparsi azoto ed ossido di azoto si sviluppò il loro ciclo metabolico a base di ammonio e nitrati, che la comparsa di ossigeno circa 2,4 miliardi provocò la loro scomparsa dagli oceani, e l’ossigeno prodotto dai cianobatteri sopravanzò il consumo del gas da parte di altri microbi e l'atmosfera finalmente si ossidò.

Incredibile a dirsi ma ancora oggi non sappiamo come tutto ciò sia avvenuto.

La comparsa dell'ossigeno sulla Terra segnò il culmine di un processo evolutivo che si protraeva da centinaia di milioni di anni, durante il quale le nanomacchine acquisirono la capacità di sfruttare l'energia solare per scindere acqua. L'evento favorì inoltre l'evoluzione di molti altri microbi.

Ed a questa fantastica storia si aggancia poco dopo, geologicamente parlando, quella della formazione della cosiddetta «Terra a palla di neve».


[1] All’interno dei tilacoidi, un sistema di membrane che formano pile di sacchetti appiattiti nel cloroplasto.

[2] Ovviamente anche nelle cellule animali si produce ATP, in organelli a ciò deputati, i mitocondri, presenti anche nelle vegetali.

[3] Vedi anche qui.

giovedì 21 luglio 2022

Quando la Terra era una palla di ghiaccio

clip_image002[8]Nota sulla figura: la distribuzione dei continenti allora non era affatto questa.

L’ossigeno libero in atmosfera non è sempre stato presente sulla Terra, ma questa è un’altra storia.

Quando l'ossigeno divenne finalmente disponibile e si affiancò ai cicli biologici di zolfo e carbonio è possibile che abbia dato origine a un cambiamento radicale nel clima terrestre, e probabilmente fu anche responsabile della prima estinzione di massa su questo pianeta.

Le prove in nostro possesso suggeriscono in maniera stringente che circa 200 milioni di anni dopo il Grande Evento Ossidativo in varie parti del mondo si siano formati enormi ghiacciai che durarono più o meno 300 milioni di anni. Si tratta di una delle glaciazioni più lunghe e massicce della storia della Terra. Il ghiaccio era presente non solo sulla terraferma, ma anche lungo gli oceani, forse fino all'Equatore: la Terra insomma, si presentava come una gigantesca «palla di neve». Ma cosa determinò un tale sconvolgimento climatico?

clip_image004[8]Una delle possibili cause fu l’accumulo di ossigeno nell'atmosfera. Mentre l'interno della Terra è riscaldato dalla radioattività, l’esterno è riscaldato dal Sole. Le radiazioni solari vengono riflesse, rimbalzando indietro verso lo spazio, ma alcune rimangono intrappolate nell'atmosfera terrestre. Attualmente i principali gas che trattengono il calore sono il vapore acqueo e l'anidride carbonica. Se l'atmosfera fosse priva di gas serra, in effetti, gli oceani della Terra sarebbero congelati. Ma 2,4 miliardi di anni fa la situazione era ancora più estrema. In quell'epoca il sole era del 25% circa meno luminoso rispetto ad oggi, motivo per cui emanava meno calore. Affinché gli oceani fossero liquidi in superficie, i gas dovevano essere molto abbondanti e in grado di assorbire energia solare, specie le radiazioni infrarosse, una forma di energia oltre che il di calore invisibile a occhio nudo ma percepita dalla nostra pelle. Uno dei gas più efficaci nell'assorbire le radiazioni infrarosse è il metaclip_image006[8]no.

 

Oggi come oggi il metano è un gas serra relativamente minore, anche se con effetti climalteranti maggiori degli altri, ma 2,4 miliardi di anni fa era quasi sicuramente molto più abbondante. La sua composizione è semplicissima: un atomo di carbonio legato a quattro atomi di idrogeno. Il metano brucia facilissimamente in presenza di ossigeno, segno che nei suoi legami è immagazzinata un'enorme quantità di energia. È il prodotto della respirazione di certi microbi in condizioni strettamente anaerobiche. Vale a dire che, se l'ossigeno non è disponibile, alcuni microbi possono ricorrere a una speciale nanomacchina per estrarre l'idrogeno dagli zuccheri ed altri molecole organiche, unirlo all'anidride carbonica e formare così il metano come prodotto di scarto. Questi microbi sono gli Archaea, il secondo grande gruppo dei procarioti. Il nano apparato dei microbi produttori di metano è molto sensibile all'ossigeno; bastano piccole concentrazioni di ossigeno perché si interrompa la produzione di metano. Oggi i microbi metanogeni si trovano comunemente in natura, per esempio negli intestini di mucche e altri ruminanti, nonché negli esseri umani, ma 2,4 miliardi di anni fa organismi del genere erano abbondantissimi anche nelle acque costiere di tutto il mondo.

clip_image007[8]

Pur in presenza di ossigeno, diversi altri tipi di microbi usano il metano come fonte di energia e per la crescita cellulare. Il consumo di metano da parte dei microbi rappresenta una delle modalità più semplici e veloci per eliminare il gas. Una volta evoluta questa capacità, dobbiamo supporre anzitutto che l'apparato per l'eliminazione del metano ne abbia drammaticamente ridotto il flusso dagli oceani nell'atmosfera, e in secondo luogo che l'ossigeno nell'atmosfera abbia eliminato, con l'aiuto della luce solare, il metano atmosferico. Parallelamente alla scomparsa di un'importante gas in grado di assorbire il calore infrarosso, il sole, ancora giovane e debole, non forniva calore sufficiente a impedire il congelamento degli oceani . E’ quasi certo che la conseguente formazione di ghiaccio o melma ghiacciata lungo la superficie dell'oceano abbia ridotto l'area per la crescita dei microbi fotosintetici e allo stesso tempo impedito lo scambio di gas tra oceano e atmosfera. La documentazione geologica indica che seguirono lunghi periodi di freddo, durante i quali gli oceani rimasero ambienti inospitali: era nata la «Terra a palla di neve», il primo episodio di perturbazione climatica indotta dai microbi nella storia geologica del pianeta.

clip_image009[8]Le condizioni di questa epoca sembrano essersi ripetute più volte nel corso del tempo; l'ultima è collocabile intorno a 750 milioni di anni fa. Incredibile ma vero, le istruzioni per costruire le nanomacchine fondamentali furono in qualche modo trasmesse ai pochi microbi sopravvissuti. Questi organismi furono dei veri e propri pionieri, in quanto traghettarono la vita da un'area all'altra, preservandola dalla desolazione planetaria.

 

 

Conclusione
Se un climascettico conoscesse bene questa storia, forse tornerebbe sui suoi passi cercando di argomentare per rispondere ad una delle domande fondamentali che da anni Aldo Piombino rivolge loro.

clip_image010[4]

Il grafico riporta l’andamento delle temperature medie nel corso della storia della Terra per due modelli: una per un pianeta privo di atmosfera e l’altra con un contenuto analogo all’attuale. Con una fonte di calore ridotta a causa della minore energia proveniente dal Sole la Terra sarebbe rimasta congelata fino ad almeno 1,5 miliardi di anni fa. E invece sappiamo bene che la vita, con la presenza di acqua liquida fondamentale per essa, era presente da almeno 3,5 miliardi di anni (chi dice poco più chi poco meno). E senza un contributo importante di gas serra come sarebbe stato possibile?

E ancora: come mai la glaciazione planetaria de la Terra «a palla di neve» inizia proprio dopo il Grande Evento Ossidativo con un crollo dell’anidride carbonica, dei gas serra in generale, e finisce quando la diffusione degli Archaea inonda l’atmosfera del metano, potentissimo gas serra?

Non appare al signor climascettico che sia proprio la maggiore o minore presenza di gas serra un elemento pressoché fondamentale nella regolazione climatica del sistema Terra? Certamente non da solo, ma sicuramente, al di là di ogni ragionevole dubbio e corroborato dal 97% di consenso scientifico internazionale e multidisciplinare, LA causa del cambiamento climatico in corso: quella di origine antropica.

La storia è maestra di vita si dice. Che lo sia anche la storia della Terra!

Il trasferimento genico orizzontale

 

clip_image002Nella nostra epoca, in cui le tecnologie di sequenziamento genico hanno compiuto grandi progressi, diventando più rapide, economiche e precise anche grazie all'informatica, è stato analizzato il genoma di migliaia di microbi. Lo studio della disposizione dei geni nel genoma ha mostrato chiaramente che molti geni non vengono ereditati verticalmente, ossia non passano da una generazione all'altra. In questo caso il modello darwiniano della discendenza con modificazioni non vi trova applicazione, ma ciò non significa che la teoria di Darwin sia sbagliata perché, indipendentemente dal fatto che Darwin non conosceva i batteri, il suo modello non è qui applicabile.

Questa seconda modalità di trasmissione ereditaria viene detta trasferimento genico orizzontale (o laterale). Il trasferimento genico orizzontale non è una mera curiosità biologica bensì un caposaldo dell'evoluzione microbica. In parole povere i geni preadattati tramite selezione in un organismo possono in qualche modo essere trasferiti in un altro organismo, del tutto estraneo, senza ricombinazione sessuale. Si tratta a tutti gli effetti di un fenomeno straordinario: un organismo incapace di fissare l'azoto può acquisire gli opportuni geni dall'ambiente, et voilà, in un battibaleno si trova in grado di compiere l'azotofissazione.

clip_image004Il trasferimento genico orizzontale non avviene per gradi. Nel giro di pochi decenni gruppi di geni possono viaggiare da un capo all'altro del mondo microbico. Il processo avviene con una velocità che mette i brividi. Uno dei primi casi di trasferimento genico orizzontale fu scoperto in Giappone, quando emerse che i batteri patogeni sviluppavano resistenza agli antibiotici molto più celermente di quanto non avvenisse con il trasferimento verticale. Con l'affermarsi del sequenziamento genico, si capì subito che i geni per la resistenza agli antibiotici erano disseminati in lungo e in largo nel mondo dei microbi. Inoltre ci si accorse che moltissimi geni sono fuori posto nei genomi. Due microbi ritenuti identici sulla base delle sequenze degli acidi nucleici nei ribosomi presentano quasi sempre una diversa disposizione dei geni. Si ha l'impressione che parecchi geni siano stati inseriti alla rinfusa nel genoma. Spesso in un set di geni ci si imbatte in uno o più geni senza alcuna apparente relazione con i geni che stanno prima o dopo quelli inseriti. Di frequente, poi, i geni inseriti vengono prelevati da un organismo totalmente estraneo per mezzo di un trasferimento genico orizzontale.

I geni trasferiti si sono evoluti in precedenza in altri organismi e vengono immessi nel ricevente a sua insaputa, come succederebbe al destinatario di un trapianto, il quale ignori di essere in attesa di un organo. I geni funzionano: su questo non ci piove. E funzionavano anche nell'organismo da cui provengono, che visse centinaia di migliaia se non milioni e in qualche caso miliardi di anni fa. Non occorre modificarli per attivarli. Se l'organismo che gli ha inavvertitamente acquisiti non ne ha bisogno, li scarta. Se contribuiscono alla funzionalità dell'organismo, vengono utilizzati. Per i microbi l'ambiente rappresenta una specie di supermercato genomico su scala globale. I geni preadattati sono a disposizione di qualsiasi organismo in grado di acquisirli, e tutti gli organismi, esseri umani inclusi, hanno acquisito i geni tramite il trasferimento genico orizzontale.

Come si trasferiscono i geni da un individuo all’altro?

Esistono tre meccanismi che permettono il trasferimento orizzontale dei geni. Il loro esatto funzionamento rimane avvolto nel mistero, e ancora non si sa quale sia il più importante.

Quello più semplice da descrivere fu scoperto nei primi anni quaranta del XX secolo da tre biochimici americani e prende il nome di trasformazione. È di una semplicità disarmante: i geni (o il DNA) vengono direttamente prelevati dall'ambiente nel volgere di poco tempo, i geni di recente acquisizione vengono incorporati nel nuovo ospite e trasmessi alle successive generazioni. Mentre il processo funziona in laboratorio non è chiaro quanto DNA sia effettivamente libero nel mondo reale. Le cellule non sputano DNA all'esterno: devono prima a morire, e morire in maniera tale che il DNA venga rilasciato intatto nell'ambiente. Il che ci porta a un altro possibile meccanismo di trasferimento orizzontale dei geni: la trasduzione.

clip_image006I più comuni trasmettitori di geni estranei sono i virus, presenti in un vasto assortimento di forme e dimensioni. Molti virus hanno l'aspetto di cupole geodetiche; altri sembrano microscopici moduli lunari. A prescindere dalla loro forma, i virus non sono vivi in senso tradizionale. Non scambiano alcun gas con l'ambiente, non dispongono di meccanismi atti a generare autonomamente energia e soprattutto non sono in grado di autoreplicarsi, non possono produrre proteine né altro in assenza di una cellula ospite. Contengono tuttavia informazioni genetiche sotto forma di DNA, o di RNA, ricoperto da un rivestimento proteico. Sulla terra vive una quantità esorbitante di virus: negli strati superiori degli oceani sono contenute diverse centinaia di milioni di virus per millilitro, una cifra 10 volte superiore a quella di tutti i batteri e gli altri microbi messi assieme.

La maggior parte dei virus non è ben caratterizzata, e talvolta specie nel caso di quelli che contengono RNA le loro informazioni genetiche mutano con tale rapidità che descriverli diventa un terno all'otto microbiologico: il virus descritto la scorsa settimana spesso differisce da quello che vediamo oggi è per questo che il vaccino che abbiamo preso contro l'influenza dello scorso anno non ci proteggerà dal virus dell'influenza di quest'anno.

I virus trasferiscono i geni? In teoria sì, ma perlopiù lo fanno solo per brevi distanze evolutive. I virus si attaccano a una cellula, dove inseriscono il loro materiale genetico, prediligendo un target di ospiti ben preciso, che identificano sulla base di specifiche proteine presenti sulla superficie delle cellule infettate. Dopo aver trovato una cellula ospite idonea, i virus vi aderiscono, trasferendovi il loro DNA o RNA. Il materiale genetico viene così incorporato nell'ospite e sabota le nanomacchine preposte alla produzione di proteine e acidi nucleici creando nuovi virus. In qualche caso il virus continua a riprodursi all'infinito nella cellula ospite, entrando a far parte del genoma di quest'ultima. Se gli esseri umani vengono colpiti da questo tipo di virus si tratta di una pessima notizia: due esempi di questi virus non litici (cioè che non distruggono la cellula ospite) sono l’HIV e l'epatite C. Quando infettano un essere umano, è quasi impossibile rimuoverli dal genoma.

In altri casi, invece, le informazioni genetiche da poco inserite consentono ai nuovi virus di svilupparsi all'interno della cellula ospite finché non raggiungono una certa soglia di popolazione, superata la quale la cellula ospite si dissolve, rilasciando nuovi virus nell'ambiente. Lo scenario appena delineato, che ricorda vagamente un'invasione di ultracorpi, è abbastanza comune nel mondo dei microbi, e si conclude con la morte della cellula ospite. I virus litici, così chiamati perché distruggono la cellula, infettano anche gli uomini, ma forse sorprendentemente risultano meno letali dei virus che non uccidono tutte le cellule e comprendono i virus che causano il comune raffreddore. La lisi non implica l'immediato trasferimento di geni ai nuovi ospiti, ma fa sì che l'informazione genetica contenuta nella cellula ospite si riversi nell'ambiente, dove può essere prelevata da microbi intenti a frugare avanzi nei bidoni della spazzatura.

clip_image008La terza modalità è quella della coniugazione, nella quale i microbi si scambiano il DNA aderendo l'uno all'altro e formando un ponte tra cellule. Questo processo si verifica tra microbi strettamente imparentati, anche se non è chiaro come o perché porti al trasferimento di geni in organismi imparentati più alla lontana.

Meccanismo a parte, il trasferimento genico orizzontale rende assai difficile risalire ai più remoti antenati degli organismi e soprattutto rende difficile, se non irrilevante, definire il concetto di specie in relazione ai microbi.

Immaginiamo di voler ricostruire l'albero genealogico della nostra famiglia. Per prima cosa chiederemo ai nostri genitori dove sono nati, e poi effettueremo ricerche sui nonni, i bisnonni e così via; ma immaginiamo ora che 40 o 50 generazioni fa i geni responsabili della digestione delle alghe siano stati introdotti nella comunità microbica localizzata negli intestini della nostra famiglia perché i nostri progenitori mangiavano un sacco di sushi. In questo caso saremo meglio adattati a mangiare le alghe. I microbi nel nostro intestino possiederanno nuovi geni acquisiti da un altro microbo per mezzo del trasferimento genico orizzontale. Quello fin qui abbozzato non è uno scenario fantascientifico, ma la realtà. Infatti, i microbi presenti nell'intestino dei giapponesi contengono geni che favoriscono la digestione delle alghe, geni che non si trovano nell'intestino dei caucasici.

L'oceano ospita una gran quantità di virus contenenti nel loro genoma i geni per una proteina fondamentale della fotosintesi (D1) ma questo non perché si stiano evolvendo per diventare fotosintetici; il gene per la proteina viene utilizzato in parte perché contiene istruzioni per una rapida replicazione. I virus sfruttano queste istruzioni per riprodursi velocemente abbondantemente nella cellula ospite infettata. Di quando in quando, però, in organismi imparentati alla lontana si trovano copie del gene per questa proteina derivanti da un cianobatterio, un batterio in grado di effettuare fotosintesi. È presumibile che ciò avvenga in conseguenza di un'infezione virale.

clip_image010In epoche remote, molto tempo prima che la Terra fosse abitata da piante e animali, il trasferimento genico orizzontale tra i microbi costituiva uno dei meccanismi di punta per traghettare i geni nel corso delle ere geologiche. L'identità dello specifico organismo è irrilevante, e in realtà il mescolamento dei geni non è fondamentale ai fini della vita. Nella misura in cui gli organismi portano in sé le informazioni che permettono all'energia proveniente dal mondo esterno di convertirsi in uno stato lontano dall'equilibrio termodinamico, e finché le cellule sono in grado di riprodursi, la vita persiste.

Il mescolamento dei geni essenziali, circa 1500, in un gran numero di microbi imparentati alla lontana ha garantito che le informazioni si conservassero in una cellula sperduta in qualche angolo del pianeta Terra. Gli organismi sono transitori, persino usa e getta, ma lo stesso non si può dire dei geni essenziali. Questi ultimi vengono trasferiti come i testimoni di una staffetta: gli organismi tengono al proprio interno i geni per lunghi periodi geologici e poi li passano a nuovi organismi. I singoli organismi potranno anche estinguersi, ma se hanno ceduto i propri geni principali ad altri organismi, i geni continueranno a sopravvivere.

clip_image012Anche se con ogni probabilità, agli albori della comparsa della vita animale e vegetale, il trasferimento genico orizzontale svolse un ruolo importante nell'evoluzione degli organismi, le cose cambiarono con l’imporsi della trasmissione ereditaria di tipo sessuato. Di solito i geni provenienti da altri organismi non penetrano nelle nostre cellule riproduttive. Il sesso ha contribuito a tenere i geni trasferiti orizzontalmente al di fuori delle cellule germinali, quelle cellule cioè che producono nuovi organismi per mezzo della ricombinazione sessuale. Per la maggior parte dei microbi, quasi tutte le volte, la ricombinazione sessuale non si configura come un'alternativa possibile; quasi tutte le volte si replicano tramite «semplice» divisione cellulare, e ogni nuova cellula figlia è quasi sempre una copia esatta della madre. Nonostante questo ridotto grado di variabilità microrganismi come i cianobatteri sono presenti sul nostro pianeta da miliardi di anni e se ne contano qualcosa come 1.000.000.000.000.000.000.000.000 (1024) negli oceani del pianeta, un numero 100 volte superiore al numero di stelle di tutte le galassie dell’universo.

Tuttavia, mescolando i geni di due linee parentali, il sesso ha segnato una svolta: la nuova cellula presenta una nuova combinazione di geni. Il sesso favorire una maggior variabilità genetica e si affermò come il processo dominante nell'evoluzione di piante ed animali, ma non lo fece di punto in bianco. Ma questa è un'altra storia.

C’è infine un ultimo meccanismo di trasferimento genico orizzontale: l’endosimbiosi.

clip_image014Come accade tutte le volte che organismi differenti vivono a stretto contatto tra loro, con popolazioni ad alta densità, ed è proprio quanto accade con le popolazioni microbiche, bisogna mettere in conto una seri di conseguenze. Una di queste è che un batterio possa inghiottire un altro batterio, anche di diversa specie, fagocitandone l’intero contenuto, compreso quello genetico; e questa cosa sembra essersi verificata a partire da circa 2 miliardi di anni fa. Avviene quindi un’associazione simbiotica che rimane all’interno di una cellula che ne ha inglobata un’altra. Per quanto possa sembrare incredibile, e si tratta comunque degli unici due organelli di cui siamo assolutamente certi essersi evoluti in questo modo, questo tipo di trasferimento è quanto clip_image016ha portato all’evoluzione delle cellule eucariote e alla formazione di subunità specializzate all’interno di queste, come ad esempio i cloroplasti al cui interno di verificano processi di fotosintesi clorofilliana e produzione di ATP, la moneta energetica del mondo biologico. Semplificando all’estremo una cellula non specializzata inglobò una in grado di fare fotosintesi e ne fece parte integrante del suo organismo. Il secondo organello è quello che costituisce i mitocondri, le centrali energetiche di tutte le cellule.

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In sintesi, il trasferimento genico orizzontale è il processo attraverso il quale i rischi causati da potenziali eventi catastrofici vengono mitigati e prevenuti: il materiale genetico viene distribuito disseminandolo tra una vasta gamma di microbi e, sebbene si tratti del principale processo evolutivo dei microrganismi a riproduzione asessuata, non è del tutto fortuito. Le sue cause sono anche di natura ecologica e legate soprattutto alla natura simbiotica dei batteri, finalizzata soprattutto ad ottimizzare l’uso degli scarti dei nutrienti disponibili. E ciò è raggiunto dai microbi vivendo insieme e dipendendo gli uni dagli altri.

Ma c'è dell'altro. E’ ormai operativo da diversi anni il progetto, ancora in corso, grazie al quale si sono identificate decine di milioni di nuovi geni e si stanno ricostruendo a incredibile velocità i genomi dei microbi degli oceani. Si tratta di un patrimonio inesplorato di risorse e informazioni biologiche al quale l'uomo può attingere per creare microbi artificiali capaci di svolgere una determinata funzione.

Con un semplice clic diventa possibile inviare in tutto il mondo la sequenza di un gene, o di molti geni, per poi risalire all'intero genoma e analizzarlo, riconfigurarlo e ridistribuirlo. Il libero mercato del mondo dei geni davvero non conosce confini e sta scatenando una guerra sempre più dura contro i microrganismi.

Inoltre, l'elenco dei geni individuati per mezzo di algoritmi informatici si è andato allungando a dismisura; finora sono state identificate alcune decine di milioni di geni microbici, e il ritmo non accenna a diminuire. In sostanza, l'inventario genetico rappresenta una specie di libretto delle istruzioni per la produzione di qualsiasi proteina progettata dalla natura e che sia presente negli organismi del pianeta.

clip_image018Ma siamo anche in grado di fabbricare cose nuove, cose che non esistono né sono mai esistite in natura.

Siamo capaci di creare un organismo che degradi la plastica? O immobilizzi materiali radioattivi che si trovano nel suolo? O produca un combustibile alternativo? O un nuovo tipo di materiale? Non sono domande da accademici pedanti, perché ci riguardano molto da vicino.

Il sequenziamento del genoma umano ha evidenziato come gli esseri umani in pratica non possiedono alcun gene in esclusiva. Qualora dovessimo scomparire dalla faccia della Terra, i microbi continuerebbero comunque a svolgere le loro funzioni e a raggiungere nuove stati di equilibrio, in virtù dei quali il loro metabolismo manterrebbe abitabile il pianeta. Da una prospettiva evoluzionistica, l'uomo non è che l'esito di una provvisoria perturbazione di reazioni biochimiche. Siamo scherzi della natura che hanno avuto l'ardire di spezzare l'armonia dei cicli geochimici naturali. Nonostante tutto, però, non possiamo fare a meno dei microbi.

clip_image020Una nuova classe di scienziati e ricercatori, i biologi sintetici, creatori di una sottobranca della biologia, quotidianamente effettua una lista di esperimenti pressoché infinita nel tentativo di alterare con successo microbi e altri organismi. Si tratta perlopiù di nobili sforzi volti a costruire un futuro ecosostenibile ma raramente si tiene conto delle conseguenze fortuite della traiettoria evolutiva della vita sulla Terra.

L'uomo è un animale di passaggio su questo pianeta; nel suo breve cammino è diventato uno dei massimi distruttori della natura dai tempi in cui ci hanno batteri cominciarono a produrre ossigeno sotto forma di scarto metabolico.

Qualcuno si chiede se non sarebbe invece meglio, anziché trastullarci con organismi che non siamo in grado di ingegnerizzare, e facendo un uso di gran lunga migliore delle nostre capacità intellettive e tecnologiche, dedicarsi allo studio delle modernità evolutive e di diffusione di quelle cruciali nanomacchine che oggi costituiscono i motori della vita.

Post scriptum

Possiamo definire la scienza come l'arte di trovare modelli ricorrenti in natura.
La loro individuazione presuppone attente osservazioni, ovviamente condizionate dai nostri sensi. Da animali visivi basiamo la nostra percezione del mondo su quel che vediamo. E ciò che vediamo è a sua volta legato agli strumenti che abbiamo a disposizione: quindi la storia della scienza è anche ò astoria delle invenzioni che modificano la nostra percezione delle cose. Tuttavia, paradossalmente, l'invenzione di nuovi strumenti è vincolata a ciò che vediamo. Se non vediamo qualcosa tendiamo a ignorarla.
(Paul G. Falkowski)

Ecco perché per centinaia di anni anche la scienza ha ignorato i microbi.

Tempus fugit. Ma dove? E come?

Non è solo fisica, non è solo neurobiologia, non è nemmeno psicologia né tanto meno filosofia. E' solo un assaggio di tutto un po' che potrà farvi venir voglia di approfondire.

Il tempo sappiamo misurarlo ma nemmeno i fisici sanno cosa sia. Ma pur sapendo misurarlo l'averlo fatto ci ha marchiato. Ed il tempo interno è diventato un altro da sé rispetto ad altre sue apparenze.

clip_image002«Il tempo è la sostanza di cui è fatta la vita», scriveva Benjamin Franklin, raccomandando di non sprecarlo, e arrivando al punto di coniare un’altra famosa definizione: «Il tempo è denaro».

clip_image004Perché, soprattutto noi occidentali, siamo così ossessionati dal tempo? Ossessionati ma al tempo stesso incapaci di tenere in considerazione la fugace bellezza di un attimo: veneriamo il passato, quasi tutte le nostre festività sono relative ad eventi avvenuti oltre 2000 anni fa, ammiriamo i monumenti tanto più quanto più antichi essi siano, mentre in Giappone riescono a cogliere la bellezza effimera della fioritura del ciliegio con una festa che coinvolge l'intero popolo in un’ebbrezza gioiosa, e tutti i santuari importanti del paese sono costruiti in legno, e ogni 10 anni vengono abbattuti e ricostruiti.

Quando pensiamo al tempo a quale dei suoi aspetti riferirci?

clip_image005Quello che ci viene dagli insegnamenti della fisica? 

Questa ci dice che, a conti fatti, il tempo potrebbe, e molto probabilmente lo è, essere benissimo un'illusione, qualcosa di cui, dati i limiti della realtà percepibile dagli esseri umani, potremmo benissimo fare a meno; ma al tempo stesso la fisica, quella quantistica, ci racconta che esistono dei limiti invalicabili al di sotto dei quali non è possibile andare: esiste un atomo di tempo, il tempo di Planck, limite aldilà del quale il tempo in fisica perde la sua validità, 5,491x10-44 secondi, uno dei tanti numeri inimmaginabili della realtà fisica delle cose. Ma senza entrare in dettagli infinitesimali Einstein dimostrò, inequivocabilmente e ormai più che dimostrato dalle evidenze dei fatti, persino dal corretto funzionamento dei sistemi di navigazione ormai disponibili su qualsiasi smartphone, che non esiste un tempo assoluto, demolendo le idee di Newton e scardinando Kant ed il suo tempo a priori. La simultaneità è un’illusione: la definizione del tempo di un evento è impossibile sen za stabilire la simultaneità tra questo evento e un altro evento, che usiamo, in una stramba tautologia, come sistema di misura del tempo stesso. L’unico tempo effettivamente percepibile è quello legato al principio di causa ed effetto, a ciò che genera un prima rispetto ad un dopo checlip_image007 sia effettivamente irreversibile perché il disordine non può far altro che aumentare: l’entropia, la freccia del tempo. Argomenti che ci lasciano immaginare lo svolgersi all’indietro nel tempo della storia dell’universo in modo che quanto più indietro nel tempo ci spingiamo tanto più ordinato doveva essere, fino all’inizio, in cui il tempo nemmeno esisteva.

O piuttosto quello che ci viene dalla biologia?

Queclip_image009sta, di pari passo con la storia dell'evoluzione della vita sulla terra, ci racconta che ogni singola cellula, ogni organismo di cui esso è composto, possiede un orologio biologico che scandisce i tempi, la simultaneità, il corso degli eventi sulla scorta di precise reazioni biochimiche, a volte legate alla presenza o all'assenza di luce solare, altre, come eventi cronometrici che si susseguono nel tempo: persino i fiori conoscono il tempo, come ben sanno tutti coloro i quali ne coltivano sui loro balconi o nei giardini. Ma già un lontanissimo antenato dei fiori, l’Euglena, un organismo unicellulare comparso più di un miliardo di anni fa ed in grado di passare, alla bisogna, da fotosintetico ad eterotrofo, possiede un sofisticato orologio biologico, che ogni sei ore esatte lo fa emergere dal fondo degli ammassi fangosi in cui vive (le mucillagini verdi di cui spesso sono ricoperti stagni e corsi d’acqua sono per lo più fatte da loro colonie) o lo riporta in basso, che ci sia luce o meno, che sia presente in natura o all’interno di una coltivazione di laboratorio. Ognuna delle migliaia di miliardi di cellule che compongono ad esempio un essere umano adulto (più o meno 30.000 miliardi per un maschio di circa 70 kg) è dotata di geni regolatori dei periodi di inizio e della durata di determinati processi biochimici che portano, ad esempio, alla sintesi di determinate proteine: in ogni cellula c’è un meccanismo di misurazione del tempo e, per estensione, gli organi di cui sono formati, hanno i loro cicli temporali. Ma non è ancora nemmeno questo il tempo che percepiamo.

O ciò che ci viene dalle moderne neuroscienze?

Ogni oclip_image011rganismo vivente che sia sufficientemente complesso, dotato di un sistema nervoso adeguatamente sviluppato, fino al suo massimo, ovvero all’emergere della coscienza, ha sviluppato, nel corso dell’evoluzione, una sorta di orologio «interno», completamente slegato sia dal tempo fisico che da quello biologico. Un ratto sa contare il tempo, è in grado di capire che avrà il suo cibo premendo un pulsante ma solo dopo che sia passata una certa quantità di tempo. Ogni senso ha il suo organo, ma non il senso del tempo: gli esseri umani, e molto probabilmente la maggioranza di molti organismi, hanno il senso del tempo, pur non esistendo un organo specifico a ciò dedicato. In passato in molti hanno creduto che esistesse una sorta di cronometro biologico, tra loro Ernst Mach ed altri fisicii, e così avrebbe potuto essere se l'evoluzione operasse sotto l’opera attenta di un progettista. Ma l'evoluzione tende alla conservazione. Una volta trovata la soluzione di un problema se la tiene ben stretta. E questa viene trasmessa in eredità da una generazione all'altra e da una specie alla successiva, rappezzata e piena di aggiustamenti e modifiche minime, finché l'antico principio conserverà qualche utilità continuerà a essere usato. Non importa sia perfetto, purché funzioni. Questo è il motivo per cui il senso del movimento e il senso del tempo sono connessi in modo inscindibile. Se uno dei due va pclip_image013erduto o danneggiato, per lo più si perde anche l'altro: provate ad immaginare come ci si potrebbe muovere, semplicemente camminare, se non operasse automaticamente un meccanismo di coordinazione temporale del movimento. Il tempo è movimento, la sua misura dipende dal confronto dei rapporti tra spazi percorsi con una determinata velocità. L’evoluzione quindi non fece che il suo lavoro: servirsi di quel che c’era. Questo è il motivo per cui ancora oggi percepiamo diversamente il tempo quando ci muoviamo con il solita velocità o con grande lentezza: lo sa bene chi pratica il Tai Chi.

Nclip_image015el nostro cervello oscillano contemporaneamente moltissimi marcatempo, come fossero metronomi, ognuno tarato con una sua oscillazione specifica, ed è ciò che ci mette in grado di confrontare le durate di periodi di tempo diverse ma non di calcolarne con buona approssimazione la durata stessa. La cosa è strana: noi siamo in grado di riconoscere in modo molto preciso durate temporali alle quali siamo abituati ma ci riesce difficile valutare i tempi e indicarne la durata. Nel cervello, dove suona un'orchestra di migliaia di strumenti segnatempo, si possono scegliere molti milioni di misure di tempo diverse ed è per questo per ogni durata di tempo che si deve misurare, è possibile trovare un giusto ritmo di accordi. L'accordo dei marcatempo fornisce una sorta di contaminuti e dare un segnale dopo che è trascorso un periodo predeterminato è relativamente facile. Le cellule grigie devono semplicemente ricordarsi un accordo il cui ritmo corrisponda in modo esatto, per esempio, alla durata di un semaforo. Ma quanto esattamente è durato? Per rispondere a questa domanda, il cervello dovrebbe avere imparato gli accordi adatti per tutti gli intervallo di tempo concepibili: impossibile. Non sorprende quindi che nella stima del tempo siamo soggetti costantemente a sbagliare.

Limiti e strutture.

Una palla rotola sulla strada davanti alla nostra autovettura, e premiamoclip_image017 subito il pedale del freno, o almeno così pensiamo. Subito? Tra l'evento e la nostra reazione sono passati due decimi di secondo; questo è il normale tempo di reazione degli esseri umani a stimoli ottici. In questi due decimi di secondo sono accadute molte cose: gli impulsi partiti dall'occhio hanno raggiunto i centri ottici nel cervello; le informazioni sono state elaborata ed è stato riconosciuto il pericolo; il cervelletto ha ricevuto il messaggio e ha inviato un ordine attraverso le vie nervose alla muscolatura della gamba i muscoli si sono contratti. Tutto ciò è accaduto in modo intuitivo, e in verità prima che noi abbiamo visto consapevolmente la palla. Quando abbiamo capito consapevolmente la situazione, il nostro piede era già sul pedale del freno. Mentre crediamo che prima la nostra coscienza abbia riconosciuto la palla e poi abbia attivato la reazione giusta virgola in realtà è accaduto esattamente l'opposto. Ciò accade continuamente ed in migliaia di situazioni diverse: dal portiere che riesce a fermare un micidiale tiro in porta al pianista che articola le sue dieci dita al ritmo di semibiscrome. Ed è questo il tempo che non percepiamo, quello che accade durante l’azione il nostro cervello ricostruisce per noi appositamente, dandoci l’illusione di aver avuto il controllo, proiettandoci un film con un prima ed un dopo invertiti. C’è persino chi si è posto il problema del libero arbitrio che verrebbe a mancare così stando le cose. E se ciò accade davvero per la maggioranza degli eventi non evidenti alla nostra coscienza la cosa notevole è che la sensazione di aver voluto che qualcosa accadesse è una ricostruzione del cervello per la nostra coscienza spettatrice anche quando, ad esempio, dovessimo premere un bottone a seguito di un evento. Sono stati condotti numerosi esperimenti in cui veniva chiesto di premere un pulsante alla vista di un determinato oggetto, e questi esperimenti hanno dimostrato che il ritardo dovuto ai tempi di propagazione dell’impulso nervoso ed alla relativa presa di coscienza erano in realtà tali da rendere incosciente la reazione e solo dopo ricostruita come cosciente. E per tornare ai cultori del libero arbitrio salviamo anche questo: fortunatamente per loro la stragrande maggioranza delle decisioni che un essere umano prende sono in realtà ben più complesse ed articolate che il premere un bottone a comando.

clip_image019La limitazione del tempo imposta dalla biologia è fissata dal modo in cui gli organismi sono costruiti. Tutte le informazioni del corpo di animali e di esseri umani vengono trasmesse elettricamente e chimicamente. I neuroni le trasmettono sotto forma di impulsi che attraversano il corpo ad una velocità che può raggiungere nell'uomo un centinaio di metri al secondo. Questa velocità è sorprendente, ma genera comunque ritardi. Il tempo di reazione dipende in definitiva dalla lunghezza dei nostri arti e se un moscerino, essendo molto più piccolo di noi, vive con un ritmo più veloce, con le sue ali che battono con frequenza pari ad un millesimo di secondo, così non potrebbe un essere umano.

I neuroni più veloci del cervello umano possono trasmettere circa 600 segnali al secondo, ogni segnale dura tipicamente un millesimo di secondo, esattamente come un battito d'ala di un moscerino. In linea di principio non possiamo sperimentare come durata di tempo un istante più breve ma sorprendentemente possiamo tuttavia riconoscere differenze di tempo di un paio di decimi millesimi di secondo, pur non sperimentandole come tempo; il cervello compie questa brillante prestazione udendo segnali acustici provenienti da direzioni diverse dello spazio. Quando un suono arriva a un orecchio una piccola frazione di tempo prima che all'altro, il cervello calcola a partire da questa differenza da dove proviene il suono ed uno dei motivi di questa sorprendente reazione è dato dal fatto che al suo funzionamento partecipano pochi neuroni, cablati in modo che i segnali elettrici provenienti dalle due orecchie devono percorrere per arrivare al centro uditivo del cervello percorsi di lunghezza diversa. Ma, come detto, non interpretiamo questa informazione come tempo, e nemmeno come rumore. I dati servono solo a localizzare una fonte di rumore nello spazio. La nostra percezione visiva è più lenta di quella uditiva. L’«adesso» dura per la vista più che per l'udito, ecco perché si preferisce un colpo di pistola come starter per una gara di corsa che non un lampo luminoso. Il dispendio di risorse per riconoscere un suono è semplicemente minore: se nell'udito sono coinvolte circa 20.000 cellule che devono tradurre le proprietà esatte del suono in impulsi elettrici nella retina esistono più di 100 milioni di cellule specializzate, bastoncelli e coni, che investigano la luce e ne ricavano informazioni; e mentre l’udito è in grado di distinguere suoni diversi in una serie purché si succedano solo quando essi siano separati da almeno un centesimo di secondo, per distinguere due immagini deve intercorrere tra loro un intervallo di almeno un decimo di secondo.

clip_image021E infine l’ancora estremamente misterioso mondo del tempo percepito: di quel senso di stress che ognuno di noi ha provato più volta quando si sente di non aver tempo, l’associazione ormai prassi comune di cose completamente diverse tra loro come fretta e stress. Ci sentiamo stressati perché si va di fretta, perché si ha poco tempo. Ma questo è un errore fatale. E’ vero esattamente il contrario. Non è vero che siamo stressati perché non abbiamo tempo: non abbiamo tempo perché siamo stressati. E non sono chiacchiere da psicobar, ma le risposte date da centinaia di esperimenti.

O ancora e infine, quelle sensazioni, provate da noi tutti, di tempi enormemente dilatati, o al contrario di ore condensate in istanti spariti nel nulla che invece avremmo voluto durassero per sempre.

Che tempo è questo?

E che tempo è quel che ho utilizzato per questo breve estratto?

Non è il fiume che scorre ma l’acqua.
Non sono gli anni che passano ma noi.
(citazione)

Brevissima bibliografia.
Arnaldo Benini. Neurobiologia del tempo.
Stefan Klein. Il tempo.
Amedeo Balbi. Inseguendo un raggio di luce.

lunedì 11 luglio 2022

La vita emergente

clip_image002Quel che gli organismi viventi sono sulla Terra, il modo in cui si manifestano, il loro cosiddetto fenotipo (i sistemi metabolici che raccolgono ed elaborano energia, fatti di proteine, lipidi, zuccheri), è l’espressione del patrimonio genetico in essi contenuto, il genotipo (le informazioni che vengono trasmesse attraverso le generazioni).

Indipendentemente dal modo in cui la vita è apparsa sul nostro pianeta, e le ipotesi in proposito sono diverse, con un percorso a ritroso che parta dai prodotti finiti essenziali all’esistenza stessa della vita, possiamo determinare quelli che devono essere stati, e che sono, i precursori biochimici ed è dimostrato che l’aumento della complessità molecolare da molecole con un atomo di carbonio e uno di azoto fino a molecole di RNA è un processo spontaneo.

clip_image004Ed è di qualche giorno fa la notizia che ricercatori hanno individuato tracce di una classe organica di molecole che sono precursori di molecole essenziali per la vita, o piuttosto direi che hanno confermato quanto già era noto. Situati al centro della nostra galassia, la Via Lattea, questi elementi costitutivi che si combinano per formare l'acido ribonucleico (RNA) potrebbero aiutare gli scienziati a capire come emerge la vita nell'universo.

Si ritiene che originariamente la vita fosse basata solo sull'RNA sulla Terra mentre l'acido desossiribonucleico (DNA) e gli enzimi proteici si sono evoluti in seguito. L'RNA può svolgere le funzioni sia del DNA che degli enzimi memorizzando e copiando informazioni e catalizzando reazioni. E’ la teoria del mondo ad RNA che fa da alternativa ad un’altra teoria, quasi del tutto abbandonata, e che vede invece nei processi metabolici che portano all’RNA i precursori dei sistemi viventi.

La teoria del RNA World suggerisce che i mattoni della vita come i nitrili non hanno necessariamente avuto origine sulla Terra. È possibile che abbiano raggiunto il nostro pianeta facendo l'autostop di meteoriti e comete durante il periodo del tardo bombardamento pesante. In effetti, gli scienziati hanno trovato nitrili e altri lipidi precursori, nucleotidi e amminoacidi all'interno di meteore  e comete.

Nel nuovo studio , ricercatori provenienti da Giappone, Spagna, Italia, Cile e Stati Uniti hanno concluso che una serie di questi nitrili è presente nello spazio interstellare all'interno della nube molecolare G+0,693-0,027, che si trova vicino al centro del Galassia della Via Lattea.

Che al di fuori della Terra esistessero complessi molecolari di questo tipo e in abbondanza era tra le ipotesi, non considerando quanto già è stato in passato abbondantemente provato: precursori della vita, elementi essenziali, fondamentali che diedero luogo ad un inizio. Ma ci fu un vero inizio? Esiste un confine?

Una definizione di vita cui spesso si fa riferimento è quella fornita dalla Nasa: la vita è un sistema chimico che si autosostiene ed è soggetto a evoluzione darwiniana. Questa definizione non incontra grosse obiezioni ma è in errore: la vita non si autosostiene, per farlo assorbe ed elabora energia dall’esterno e lo fa non come sistema bensì come processo e un processo non può evolvere perché, formalmente, è esso stesso qualcosa che evolve. Un’analisi formale di oltre 100 definizioni di vita ha portato a questa meta-definizione: la vita è autoriproduzione con variazioni che, pur priva di valore assoluto valore assoluto indica cosa la scienza ritenga essere la materia vivente. Vale non solo per quanto è terrestre ma applicabile ad ogni forma di vita che l’immaginazione possa concepire: vita extraterrestre, forme di chimica alternativa, modelli di computer, forme astratte. E la sua unica base comune è questa: è vita tutto ciò che copia se stesso e cambia. Ma una definizione che sia completa non può aversi se non si tiene conto che il processo dell’insieme delle reazioni chimiche coordinate, selezionate nel tempo e integrate con reazioni preesistenti pone la vita nel dominio dei processi caratterizzati da proprietà emergenti, che non erano presenti prima che il sistema raggiungesse un dato livello di complessità. La vita è dunque complessità auto-generata basata su informazione che riproduce se stessa.

Solo da qui si può riflettere in modo coerente sul problema della sua origine.

I processi chimici che hanno generato questo sistema sono quindi determinabili a ritroso. Data la composizione degli organismi viventi, la chimica dell’acido cianidrico e quella dei suoi primi derivati è quanto ha agito all’inizio: acido formico e, soprattutto, formammide. Gli spazi interstellari contengono elevate quantità di queste sostanze, in nubi le cui dimensioni sono dell’ordine delle migliaia di anni luce. Le reazioni che dai composti primordiali portano ai costituenti di base del vivente (amminoacidi, basi nucleiche, acidi carbossilici, catene alifatiche) sono ormai in gran parte note. Sono anche chiari i princìpi per i quali queste molecole, generate spontaneamente in presenza di diffusi e adatti catalizzatori, e senza particolari richieste energetiche, possono polimerizzare (ovvero creare lunghe catene) creando il successivo livello di complessità chimica, ovvero ciò che non c’era, le proprietà emergenti.

Dunque il filo di reazioni che unisce queste prime molecole biogeniche autogenerate dagli organismi, che siano batteri, all’origine stessa dell’evoluzione della vita o complessi quali noi siamo, non conosce interruzioni; la vita quindi non ha avuto un vero inizio, poiché non è possibile definire un momento lungo questa ininterrotta sequenza di eventi in cui sia possibile dire: da qui in poi è vita, prima è non-vita.

venerdì 8 luglio 2022

Nanomacchine, evoluzione…e la Microsoft!

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Cosa avrà mai a che fare la Microsoft con un argomento di biologia, di biochimica? Lo vedremo tra poco.

L’ambiente in cui vivono gli organismi è in continuo cambiamento.

Questo è il motivo per cui, osservando l’evoluzione delle componenti molecolari fondamentali alla base della vita, e per estensione i loro prodotti, gli organismi viventi, o se volete l’evoluzione stessa delle specie, si incontrano spesso strutture imperfette, frutto più dell’assemblaggio di pezzi presi da quanto a disposizione, riciclando o riadattando come si fa nel bricolage. Non è perfetto, la perfezione non è di questo mondo qualcuno direbbe, il falegname sotto casa mia con 50 € l’avrebbe fatto meglio, un ingegnere avrebbe certamente scelto altro, ma…funziona! E la differenza tra funzionare o meno in questo caso, potrebbe essere quanto porta alla sopravvivenza di un organismo, di un’intera specie, della permanenza della vita stessa.

clip_image004Se pensiamo a quei meccanismi molecolari (nanomacchine, così gli scienziati definiscono i complessi meccanismi molecolari fatti per lo più di proteine, elementi vari, complessi molecolari e acidi nucleici) che sono comuni a qualsiasi organismo vivente, e che da almeno 3,5 miliardi di anni non sono cambiati, possiamo intuirne il perché: un cambiamento deleterio comportante la perdita di funzionalità della struttura biochimica, avrebbe comportato la scomparsa di intere linee di viventi, o dell’intera vita stessa. Soltanto poche nanomacchine fondamentali sono presenti in qualsiasi cellula di qualsiasi forma di vita del pianeta e lo sono da miliardi di anni, dai batteri primitivi (Archea), con un antenato comune tra questi e le cellule eucariote, fino alle balene, dai batteri fotosintetici alle sequoie. E tra queste nanomacchine possiamo senza dubbio alcuno annoverare quanto necessario a svolgere i processi di fotosintesi (non solo quella più nota con produzione di ossigeno come sottoprodotto) e quanto compete alla produzione della moneta energetica di ogni cellula, della vita stessa (ATP, Adenosin trifosfato, prodotto sia nei ribosomi che durante i processi fotosintetici).

clip_image006Stime recenti ci dicono che nel mondo biologico a noi conosciuto esistono qualcosa come 60-100 milioni di geni diversi (finora ne sono stati codificati con un lavoro enorme circa 25 milioni). Di questi, si stima che soltanto 1500 siano i geni essenziali per la sintesi di queste nanomacchine fondamentali. Forse è una stima troppo prudente ma quand’anche fosse 10 volte superiore ciò significherebbe che soltanto lo 0,0015-0,0025 percento contiene informazioni fondamentali per la vita mentre il restante 99,98 percento contiene informazioni specifiche e soprattutto può mutare senza conseguenze catastrofiche e possono evolvere. Se invece un gene essenziale mutasse o andasse perduto la conseguenza sarebbe una sciagura perché, a meno che non si evolvesse rapidamente un sostituto per la nanomacchina perduta, la perdita di un gene essenziale potrebbe togliere dalla circolazione diversi elementi chiave per la vita: altro che estinzione di massa!

Torniamo alla mutevolezza dell’ambiente ed alle sue conseguenze.

Un malinteso molto diffuso riguardo all’evoluzione per selezione naturale è quello che porta a pensare che, operando nell’arco di milioni di anni, questa porti ad ottimizzare i processi che consentono agli organismi di sopravvivere e riprodursi, che esista, in altre parole, un progresso, una tendenza verso qualcosa. Nulla di tutto ciò: l’evoluzione è cieca, e paziente soprattutto, considerando l’enorme inimmaginabile quantità di tempo a disposizione.

Una delle prove della completa mancanza di progresso evolutivo come conseguenza dell’evoluzione, dell’assenza di causalità se volete, è data anche dall’analisi del modo in cui le strutture molecolari fondamentali siano state mantenute e oggetto di piccoli aggiustamenti in corso d’opera sfruttando al massimo il materiale a disposizione, senza reinventare né tanto meno riprogettare nulla di nuovo.

clip_image008Una delle proteine fondamentali della fotosintesi, ad esempio, derivata più o meno senza modifiche da quella usata dai cianobatteri, che svilupparono la fotosintesi e che operavano ed operano in assenza di ossigeno; in presenza di questo gas invece, quindi nella pressoché totalità dei casi, va letteralmente distrutta dopo circa 10.000 utilizzi, ovvero dopo esser passata attraverso 10.000 elettroni staccati ad atomi di idrogeno da parte di altrettanti fotoni: il tutto in una mezzora. L’evoluzione, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, anziché sviluppare una proteina diversa e funzionante ha sviluppato un complicato meccanismo di riparazione che, individuata la proteina danneggiata, la rimuove e ne inserisce una nuova nel “buco” rimasto. Insomma, è come se viaggiando in auto doveste portarvi dietro una squadra di meccanici che ogni 10.000 giri di ogni ruota ve la sostituiscano con una nuova…in corsa!

Questi complicatissimi meccanismi di riattamento, di bricolage appunto, ricordano da vicino l’enorme spreco di risorse rispetto al risultato delle complicaclip_image010te macchine che Willy il Coyote attrezza nel tentativo di catturare l’imprendibile Beep Beep: con una differenza, Willy finisce sempre per provocare catastrofi a suo danno mentre in biologia non saranno perfette, ma funzionano, e lo fanno da miliardi di anni nel caso delle strutture fondamentali.

Il metodo usato dall’evoluzione se volete ricorda da vicino quello che la Microsoft ha utilizzato per decenni, e tuttora utilizza in parte, per il proprio sistema operativo. La sua prima versione operava per determinati tipi di processori della Intel e l’ambiente di questi ultimi era, ed è, in continua evoluzione, con cambiamenti che avvenivano a ritmi insostenibili per chi avesse voluto ogni volta riprogettare un sistema operativo ex novo. E così la Microsoft scelse, fin dall’inizio, di aggiungere un numero crescente di codici di programmazione, preferendo aggiornare il software anziché riprogettarlo. Il risultato è certamente qualcosa di non super efficiente o super veloce, sicuramente ridondante e macchinoso, ma funzionante! Analogamente la natura, in un ambiente in continuo ed imprevedibile cambiamento, anziché riprogettare le nanomacchine da zero, ricicla vecchi macchinari e li modifica in misura lieve o sviluppa un insieme di nuove componenti che facilitino il funzionamento degli organismi in un ambiente sempre mutevole. In pratica è come se la natura aggiungesse nuovi codici di programmazione alle macchine evolute in precedenza.

clip_image012Un ultimo esempio, sempre relativo a qualcosa appartenente a quelle circa 1500 strutture fondamentali che da miliardi di anni consentono l’esistenza della vita stessa sulla Terra, è quello relativo ad un’altra proteina dal tipico nome complicato: ribulosio bisfosfato carbossilasi/ossigenasi (RuBisCO). Molto semplicemente è la proteina responsabile della fissazione del diossido di carbonio, CO2, (nota anche col nome di anidride carbonica) in tutti gli organismi fotosintetici aerobi (in ambienti con ossigeno) ma anche nei batteri chemioautotrofi, ovvero quei batteri in grado di sintetizzare nutrienti da composti come ioni ammonio, acido solfidrico o metano. Insomma è la proteina più abbondante della Terra e la responsabile della produzione della maggior parte della materia cellulare: ma in quanto a funzionamento lascia molto a desiderare.

La sua struttura è abbastanza semplice essendo formata da due subunità che interagiscono tra loro. Quando funziona correttamente estrae CO2 presente nell'acqua sottoforma di gas disciolto e ka aggiunge ad uno zucchero con cinque atomi di carbonio dotato di due «maniglie» di fosfato (ribulosio difosfato), formando due molecole identiche con 3 atomi di carbonio. E' questa senza dubbio la più importante reazione biochimica che ha luogo sulla Terra, nonché il primo passo nella produzione fotosintetica del 99% circa della materia organica su cui si basa la vita delle restanti forme biologiche. Tutti gli animali, esseri umani compresi, devono la loro esistenza alla RuBisCo.

Come altre proteine implicate nei processi fotosintetici, anche la RuBisCO si è evoluta molto prima della comparsa dell'ossigeno libero nell'atmosfera terrestre, in un periodo in cui le concentrazioni di diossido di carbonio erano molto superiori alle attuali e, in tali condizioni la proteina funziona molto bene. In presenza di ossigeno però, l'enzima scambia spesso l'ossigeno per diossido di carbonio per quanto la cosa possa apparire strana, visto che le due molecole sono strutturalmente diverse. Ogni volta che accade la RuBisCO incorpora ossigeno e non produce nulla di buono, e questo accade circa il 30 percento delle volte nella maggior parte delle piante, con un enorme spreco di energia. A ciò si aggiunga che questo complesso è molto lento, un prodotto con frequenza di 5 volte al secondo; persino rispetto alle RuBisCO evolutesi recentemente e più efficienti ci sono nelle cellule nanomacchine velocissime ed estremamente più rapide nella generazione del loro prodotto.

Ancora una volta la causa principale di questa apparente anomalia sta nella modalità specifica in cui opera l'evoluzione per selezione naturale. Anziché reinventare o riprogettare da zero, a rischio di fallire, un nuovo complesso molecolare si continua a sistemare o utilizzare quanto a disposizione. Purché funzioni!

Soprattutto se, come nel caso della RuBisCO, questa appartenga a quelle circa 1500 nanomacchine fondamentali, presenti da miliardi di anni, che non sono cambiate e tuttalpiù modificate in corso d'opera riadattando il materiale a disposizione.

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