domenica 20 febbraio 2022

La metafora del rogo

Da ragazzino e da adolescente, come tanti della mia generazione, ho vissuto quasi con rassegnata indifferenza, o con incosciente presunzione, un periodo in cui i capi di stato delle cosiddette superpotenze avevano a disposizione un potenziale distruttivo tale da destinare la Terra ad un mortale inverno nucleare e oggi la situazione è persino peggiore, essendo aumentate le nazioni che detengono armamenti nucleari. Come potrà la stessa umanità rendersi conto di ciò che si sta preparando ed attuando, giorno dopo giorno, da qui a 30, 50 o 100 anni? E se un secolo vi sembra chissà quanto tempo pensate ai vostri nonni e ai vostri nipoti, e quel secolo l'avrete abbondantemente coperto con persone con cui siete stati, siete o sarete in relazione.

Ma possiamo farcela.

Ça va sans dire, più che efficaci termini francesi per un caso francese, è di ieri la notizia della débâcle della grandeur della Francia di Macron in Mali. Sarà l’invasione dell’Europa gridano già le destre. Senza avere la minima idea di quel potrebbe accadere in termini di migrazioni incontenibili di centinaia di milioni di profughi climatici. In queste poche pagine non voglio affatto alimentare la paura o dipingere scenari catastrofistici ma è paradossale che il problema non potrà essere risolto finché tutti non lo avranno considerato un problema, noto quindi non solo la comunità scientifica che ce lo sta dicendo da decenni! Che ci aveva avvisato per tempo ma che, probabilmente, non ha saputo trovare le parole giuste per far sì che un rumore di fondo, un fastidioso ma innocuo debole acufene, simile a quello del timore di una guerra atomica della mia gioventù, diventasse invece un fragoroso e intollerabile rombo continuo!

Possiamo ancora cambiare direzione, non dobbiamo lasciarci andare alla disperazione, al cinismo e alla rinuncia né tanto meno al negazionismo: chi ancora oggi nega i cambiamenti climatici causati dall’uomo lo colloco direttamente, senza appello né dialogo, con i terrapiattisti, i novax e quelli che l’uomo sulla Luna era finto: inutili idioti.

Possiamo farcela.

E’ stato calcolato che per creare un nuovo sistema energetico globale, nel corso dei prossimi decenni, e tanto è il tempo rimastoci, occorrerebbe investire il 2-2,5 percento del PIL mondiale: sembra una percentuale sorprendentemente bassa e proviamo a contestualizzarla. La quota media europea destinata alla ricerca scientifica è pari al 2 percento del PIL. Per affrontare la Seconda Guerra Mondiale la Gran Bretagna utilizzò il 50 percento del suo PIL. Per mandare 4 uomini sulla Luna gli Stati Uniti per dieci anni hanno devoluto il 2,5 percento del loro PIL. A livello mondiale il contributo delle spese per la difesa ammonta a circa il 2,5 percento del PIL[1]. E non esiste esercito in grado di difenderci dalle conseguenze dei cambiamenti climatici.

Dobbiamo farcela. L’alternativa è un immenso, invisibile rogo.

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Siamo convinti che il fondamento della società sia il pensiero politico, ma se andiamo ad approfondire, da non moltissimo tempo, quanto basta per mettere in fila una manciata di generazioni, alla base di tutto c’è la produzione di energia. L’era, o la parte di questa, che più di qualcuno ha deciso meritasse un nome proprio: Antropocene. E produrre energia serve poi a trasferirla tra sistemi diversi, con lo scopo, come ci insegna la fisica senza entrare nei dettagli, di generare forze, lavoro insomma, con inevitabile produzione di calore.

Antropocene. Quando inizia? Nel 1945 con i risultati delle ricerche di Oppenheimer ed i suoi 10.000 scienziati riuniti nel deserto del New Mexico? O sarebbe meglio spostare ancora più indietro lo spartiacque geocronologico? Senza arrivare ai tempi del controllo del fuoco o della diffusione delle pratiche agricole a me piace collocarla nella seconda metà del XVIII secolo. Quando, nel 1765, un ingegnere scozzese, James Watt, potenzia e migliora, col suo regolatore centrifugo ed altre modifiche sostanziali (r. di Watt), il motore a vapore, figlio di tanti ingegni che vi si erano applicati in precedenza.

E da allora la produzione energetica è cresciuta a ritmi esponenziali, e più se ne aveva più se ne produceva, con un ciclo a feedback positivo che sembrava non avesse fine. Bruciare, produrre, produrre, bruciare.

Non a caso qualcuno ha coniato il nome di un nuovo periodo geologico: il Pirocene.

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Qualche decennio fa ricordo dibattiti da cui scaturivano previsioni sulla fine dei combustibili fossili sulla Terra, sull’esaurimento di carbone, petrolio e gas naturale; oggi sappiamo che, per quanto riguarda il petrolio, stando alle conoscenze attuali sulla posizione di nuovi giacimenti e con i tassi di consumo attuali saremmo coperti per almeno un altro mezzo secolo: 50 anni, il 2070, non è poi così lontano in termini di generazioni, un nipote ed un pronipote per chi è nonno oggi. Non sto dicendo che il petrolio finirà tra 50 anni, magari verranno fuori nuovi giacimenti o si scoprirà d’aver sottostimato gli attuali, sto dicendo che questo è il punto di riferimento. O magari finirà prima in un ultimo devastante rush finale.

100 milioni di barili di petrolio, tanto bruciamo ogni giorno nel mondo: 36,5 miliardi di barili ogni anno.

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Dipendiamo dall’energia fossile. Circa l’80 percento del consumo totale di energia del mondo viene da fonti fossili, petrolio, carbone e gas naturale. E per quanto nel futuro la percentuale derivante dalle cosiddette «energie rinnovabili[2]» sarà sicuramente maggiore, non è possibile pensare di smettere da un giorno all’altro di dipendere dalle fonti fossili: sarebbe come pensare di poter fermare un treno in corsa con una mano, un’idea irrealistica, talmente utopica da essere ormai parte del mondo delle ideologie; pensare di sostituire dall’oggi al domani le fonti energetiche attuali con qualcos’altro porterebbe al collasso della società.

Quindi iniziamo a pensare fin d’ora che per transizione energetica va inteso il periodo di tempo che servirà per passare da fonti prevalentemente fossili ad un mondo, perché se mondo non fosse sarebbe quasi inutile, basato su fonti sostenibili e rinnovabili. E mi fermo qui: non è delle alternative che voglio scrivere.

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E’ a Watt che voglio tornare. Quando Watt accese il motore a vapore la concentrazione di CO2 in atmosfera era di 280 ppm. Oggi è arrivata a 415 ppm, il valore più alto mai registrato in 3 milioni di anni! E per chi si è posta la domanda, soprattutto i negazionisti, «…e allora i vulcani?» risponderò subito che è stato già calcolato che il contributo annuale di tutta l’attività vulcanica della Terra è pari a circa 200 milioni di tonnellate di CO2, mentre l’attività umana ne produce qualcosa come 50 miliardi di tonnellate l’anno (Gton)! 36 per i più ottimisti, che, pur essendo un dato sottostimato resta un’enormità.

Per avere un metro di paragone con il vulcanismo, circa 65 milioni di anni fa, per 30.000 anni di seguito, una regione dell’attuale India e che allora stava da tutt’altra parte, ha eruttato e deposto basalti senza tregua (500.000 kmq con spessore medio di 2 km), alterando così tanto il clima del pianeta da contribuire in grande misura, insieme al famoso impatto dell’asteroide, all’ultima estinzione di massa occorsa sulla Terra, quella tra Cretaceo e Paleocene. Ultima? Se escludiamo quella in corso. Ma questa è un’altra storia, anche se direttamente legata ai cambiamenti climatici d’origine antropica.

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Bruciando centinaia di miliardi di tonnellate di carbone e petrolio quell’enorme quantità non è svanita nell’aria, evaporata, ma è diventata diossido di carbonio, anidride carbonica come si diceva un tempo.

Tornando al paragone col vulcanismo delle 50 Gton/anno (Gton, Giga-tonnellata, un miliardo di tonnellate) non vediamo né fuoco né fumo, contrariamente anche ad un solo vulcano, in grado di preoccuparci e spaventarci. Nel 2010 il vulcano islandese dall’impronunciabile nome, Eyjafjallajökull, eruttò fermando per una settimana tutto il traffico aereo europeo, con un rilascio di CO2 che arrivò ad appena il 40 percento di quello che lo stesso traffico produce quotidianamente! Un vulcano ambientalista insomma! Con due semplici calcoli si scopre che le emissioni antropiche quotidiane corrispondono a 600 Eyjafjallajökull che eruttino senza sosta ventiquattrore al giorno per tutto l’anno.

Il vulcano siamo noi.

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Quando le notizie di cronaca ci riportano le immagini di un deposito di carburante, una petroliera, un impianto di produzione in fiamme, non ci soffermiamo a pensare che era comunque destinato a bruciare, non tutto insieme e nello stesso posto. Quel che invece quotidianamente bruciamo non lo vediamo. Non vediamo il fuoco e molto raramente vediamo direttamente il carbone o il petrolio. Ogni volta che prendiamo un aereo non abbiamo idea di che razza di falò potrebbero scatenare 20 tonnellate di benzina avio. Facciamo il check-in per il bagaglio ma non per il barile di petrolio (circa 160 litri) che ci portiamo dietro e che occorre bruciare per ogni passeggero che compia un volo entro i confini europei. Non scompare: 160 litri di petrolio, tra ricerca, produzione, prodotto, trasporto, distribuzione e consumo diventano 350 kg di CO2, 50 tonnellate per 150 passeggeri.

Sarebbe istruttivo visualizzare la catasta di barili di petrolio che ognuno di noi usa nel corso della vita, e se 100 barili in giardino (200.000 km con un’automobile di media cilindrata) vi sembrano pochi pensate a quanto grande possa essere il rogo che produrrebbero se bruciati in un sol colpo. Sto pensando al giardino di un tassista!

Paghiamo per l’energia, per averne, ma ad oggi non paghiamo per le conseguenze di aver rilasciato tutto quel CO2 in atmosfera; e non pagare non è un’opzione. Se non lo facciamo adesso lo faranno le generazioni future, a caro prezzo. E la domanda è: quanti di noi sono davvero disposti a pagare il green premium? Il sovrapprezzo che occorrerà, volenti o nolenti, pagare per ottenere energia che non rilasci gas climalteranti[3]?
Proprio in questi giorni le cronache ci ricordano che le bollette stanno subendo aumenti mai visti in precedenza, nemmeno al tempo della crisi petrolifera degli anni ’70, e i governi stanno correndo ai ripari per evitare ai cittadini stangate micidiali all’economia, già provata da due anni di pandemia. E chi correrà ai ripari quando sarà la normale produzione energetica a dover costare di più affinché ogni singola tonnellata di CO2 rilasciata venga compensata ma soprattutto quando finalmente saranno avviati gli impianti di cattura e stoccaggio per centinaia di miliardi di Gton già rilasciate e che, abbassando a 280 ppm, valori preindustriali, si scongiuri o si mitighi in maniera importante l’effetto del riscaldamento globale. O chi pagherà per i necessari investimenti in tema di energia da fonti nucleari? Nel 2018 il rapporto sul clima del
IPCC lo aveva avvisato a lettere cubitali: le conseguenze di un aumento di temperatura media superiore ad 1,5 °C sarebbero disastrose.

In un articolo recentemente comparso su "Scientific American" si evidenzia come i climatologi sottovalutino la gravità e la velocità dell'emergenza climatica per evitare di sbagliare ed essere messi alla berlina dai negazionisti e spesso i rapporti ufficiali tendono a sottovalutare i potenziali pericoli climatici: è eccesso di prudenza forse, ma che resta comunque uno dei pilastri del metodo scientifico, non sinonimo di ignoranza.

Ciò significa che se gli scienziati prevedono un aumento della temperatura media del pianeta di 2 gradi, significa che sarà almeno 2 gradi! E allora, se un prudentissimo IPCC ha sottolineato di recente l'urgenza di limitare a 1,5 °C rispetto a 2 °C riflettiamo sul significato perché, quel mezzo grado, rappresenta una differenza enorme in termini percentuali e delle sue conseguenze!

12 miliardi di tonnellate di petrolio, carbone e gas ogni anno diventano 50 Gton di CO2 equivalente, sempre considerata l’intera filiera. Spegnere tutto entro il 2050? Impossibile. Impensabile. Dobbiamo comunque essere grati alle fonti energetiche che finora, così abbondanti, ci hanno permesso di trasformare un barile di petrolio nel lavoro di un uomo per 10 anni, riscattando il genere umano dalla fatica e dal freddo, favorendo dapprima i paesi occidentali e poi, negli ultimi decenni, anche miliardi di altre persone.

E pur con degli squilibri ancora grandissimi il problema non è essere usciti dalla povertà, che ci ricorda che quelli de la descrescita felice, erano solo sognatori piuttosto stupidi, ma esserci buttati a testa bassa e con i paraocchi nel consumo eccessivo e negli sprechi, in un modello tale per cui la maggior parte delle cose che creiamo, pensiamo e facciamo finisce in spazzatura, ovvero in emissioni. E non è nemmeno pensabile che possa essere sostenibile un modello planetario che vede l’1 percento più ricco del mondo responsabile per emissioni pari a quelle di 175 individui appartenenti al 10 percento più povero, fascia enorme di umanità che più di ogni altra patirà le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Azzerare le emissioni entro il 2050 per evitare che il riscaldamento globale superi quel valore di 1,5 °C. Realizzare (la tecnologia c’è, già ce ne sono diversi modelli, qualcuno, pur piccolo, in produzione!) dispositivi che estraggano il CO2 direttamente dall’atmosfera. E’ una delle prove più grandi che l’umanità abbia mai dovuto affrontare. Il 2050 sta nel futuro come il 1990 sta nel passato. E da allora le emissioni sono aumentate del 60 percento! E anche se riuscissimo a ridurre del 50 percento le emissioni l’inerzia del sistema Terra sarà tale che comunque il problema continuerebbe ad aggravarsi finché non sarà stato rimosso tutto il diossido di carbonio presente ad oggi: la Terra continuerà a scaldarsi, i ghiacciai a sciogliersi, la superficie dei mari ad alzarsi e questi ad acidificarsi, con conseguenze devastanti e anzi, i temi ambientali relativi ai mari sono sempre stati trattati in minima parte: a lungo si è pensato che il mare potesse ricevere una quantità infinita di CO2 ma così non è. Il mare si acidifica ed a ritmi sostenuti, scatenando una serie di eventi che minano la base delle catene alimentari dell’intero pianeta: il solo fitoplancton produce il 60 percento dell’ossigeno che respiriamo!

La resistenza più grande che l’umanità dovrà affrontare è, come ho scritto in apertura, lo scontro con chi l’energia, che è alla base di tutto, la produce e la commercia. Il mercato del petrolio vale oggi qualcosa come 6 miliardi di dollari al giorno! Quei grossomodo 100 milioni di barili di petrolio che bruciamo quotidianamente. Il fondamento di interi sistemi economici e chi basa il proprio profitto su questi non li lascerà andare senza dar battaglia, con milioni di posti di lavoro in gioco.


Siamo tra incudine e martello: se non spegneremo il fuoco moriremo di certo; se lo spegneremo rischieremo di morire.

Possiamo spendere al massimo altre 800 Gton di emissioni, ottimisticamente tra meno di 25 anni la nostra quota sarà esaurita. Ma stiamo puntando senza staccare il piede dall’acceleratore dritti verso il baratro: se continua così entro la fine del secolo saremo ad un aumento tra i 3 ed i 4 °C.

Un secolo: l’arco della vita dei nipoti di chi è nonno oggi.

Nota: grazie ad Andri Snaer Magnason ed al suo bellissimo libro “Il tempo e l’acqua”. Iperborea 2020. (edizione originale islandese, 2019).


[1] L’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, nel suo rapporto annuale riporta: nel 2020 la spesa militare totale nel mondo è salita a 1.981 miliardi di dollari, con un aumento del 2,6% rispetto al 2019, malgrado una diminuzione del Pil globale del 4,4%. E per il 2021 è previsto un ulteriore aumento con il superamento della cifra di 2.000 miliardi di dollari. In questi giorni l’Ucraina è al centro delle attenzioni: sappiate che nel 2022 questo paese ha raddoppiato gli investimenti militari: 6% del PIL.

E visto che in questi giorni l’Ucraina è al centro delle attenzioni sappiate che nel 2022 questo paese ha raddoppiato gli investimenti militari: 6% del PIL.

[2] Termine alquanto improprio e piuttosto infelice, dando l’idea che tutte le fonti cosiddette rinnovabili possano essere tali: eolico e solare dipendono dalla produzione di minerali ed elementi chimici (il litio o i lantanidi, le terre rare che così rare non sono poi). Solo idroelettrico e nucleare possono essere considerati davvero rinnovabili, considerando il tipo di materia prima di cui hanno bisogno.

[3] Diossido di carbonio - CO2, metano - CH4 e monossido di diazoto - N2O

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