martedì 19 gennaio 2010

Paradossi Haitiani

Le immagini che illustrano questo post sono tutte precedenti il terremoto e rappresentano la condizione haitiana in regime di normalità (N.d.R.).

Tra le tante cose che Cristoforo Colombo non si sarebbe mai aspettato sbarcando nel 1492 sull’isola che egli stesso (ri)battezzò Hispaniola è che quella sarebbe diventata una delle prime nazioni americane a proclamarsi indipendente già nel 1804: Haiti. E ciò, nonostante l’ultimo tentativo di Napoleone che inviò due anni prima decine di migliaia di soldati destinati a morire più di malattie tropicali che di spada o moschetto.

Come in una sorta di contrappasso, furono proprio gli echi lontani della rivoluzione francese, i proclami che abolivano, ma solo sulla carta, la schiavitù, la dichiarazione dei diritti dell’uomo e cose del genere, a provocare i moti di ribellione tra la popolazione di colore importata in catene dall’Africa fin dal XVI secolo e, fino ad allora, schiavizzata dai coloni francesi soprattutto per la faticosissima coltivazione della canna da zucchero.

Una popolazione in decisa maggioranza formata da neri d’origine centro-africana, ma anche di una dozzina di sfumature di colore della pelle dovuti a decine di generazione di incroci e figli illegittimi tra bianchi e nere per lo più, ma anche tra neri e bianche; fino ad avere dei mulatti (o meglio creoli come dicono da quelle parti) la cui tonalità ambrata delle pelle poteva facilmente esser scambiata per quella di un bianco abbronzato. Classi sociali che andavano dai paria rappresentati dagli schiavi, merce spesso piuttosto preziosa e venduta negli appositi mercati isolani, fino a creoli, schiavi affrancati a loro volta possessori di schiavi, e quanti erano chiamati petit e grand blancs ad indicare francesi purosangue ma di bassa od elevata e nobile estrazione sociale rispettivamente: ex marinai, commercianti, piccolo borghesi, artigiani o nobili proprietari terrieri.

Ma gli eroi popolari di Haiti, allora detta Santo Domingo, quali lo stesso Toussaint l’Ouverture, morto in una freddissima prigione francese e a cui è intitolato l’odierno aeroporto di Port-Au-Prince, altro non erano che la grottesca imitazione della grandeur francese da parte di generali con la feluca, ma la pelle di un altro colore.

Corrotti e corruttibili e che hanno dato il via ad un processo sì di liberazione dal giogo coloniale, ma che è proseguito in un progressivo impoverimento delle condizioni di vita di qualche milione di abitanti a fronte di un altrettanto progressivo arricchimento di una classe dominante costituita da pochissimi.

Con spagnoli, inglesi ed i neonati statunitensi pronti fin dalla fine del XVIII secolo a sostituire i francesi nel possesso dell’isola, il tutto non ha fatto altro che tentare di riprodurre il modello economico precedente, ma in totale assenza di organizzazione.

Non voglio certo dire che il modello coloniale e schiavista precedente fosse migliore giacché sappiamo tutti che il significato primo del colonialismo è solo quello di sfruttare ed ottenere profitto col minimo investimento (ovvero costo della manodopera praticamente nullo), ma è un dato di fatto che questo è quasi sempre stato seguito da lunghissimi periodi di auto celebrazione e di culto della personalità tali da nascondere alle masse i veri scopi dei cosiddetti liberatori: liberarsi da qualcuno affinché si liberi il posto che questi occupava. In altre parole, sembra proprio che i paesi ex colonizzati altro non sappiano fare altro che sperimentare lo stesso tipo di dittatura o governo fantoccio che hanno subito fino al giorno prima su loro stessi. La cosa è forse giustificabile per l’assenza di memoria storica precedente.

E così dopo Toussant, che non fece in tempo a praticare ciò che aveva provato pochi anni prima (con un accordo coi francesi in cui chiedeva potere e libertà solo per sé ed i suoi), si arriva, in un altalenante passaggio tra dominazioni più o meno palesi e dittatori da operetta, a figure come quella del famigeratoPapa Doc e suo figlio Baby Doc.

E nei decenni recenti il tutto farcito dalla assoluta inutilità ed inefficienza delle missioni ONU che siano state sotto forma di caschi blu brasiliani o cinesi che sotto forma delle varie ONG. Talmente inefficienti (e idiote) da non essersi minimamente preoccupate d’andare a mettere la propria caserma in un edificio piuttosto malandato poggiato su uno dei territori a più alto rischio sismico del pianeta.

Con quelle condizioni di partenza, seguite e perdurate nei secoli, non è difficile capire come Haiti sia diventato il paese più povero delle Americhe. Con un reddito procapite pari a 1300 dollari l’anno che lo pone al 203mo posto su 229 paesi del mondo, col 60 percento di disoccupati ed una delle mortalità infantili più alte del mondo. In un paese abbandonato a se stesso, alla deriva sulla placca caraibica, schiacciato, non solo tettonicamente, tra quella nordamericana e quella sudamericana, non è altresì difficile comprendere come un terremoto devastante sia stato effettivamente tale; come sia tragicamente facile arrivare a parlare di 200.000 morti, due milioni di senza tetto e ancora decine di migliaia di dispersi ormai senza più speranza di vita. Non ci si meraviglia di fronte ai nuovi alberghi, alle caserme, ai palazzi governativi, crollati al primo colpo.

Se a distanza di mesi anche i più ingenui iniziano a comprendere che le responsabilità di molte delle vittime abruzzesi è stata anche in quella sabbia messa al posto del cemento, nessuno, credo, si meraviglierà della devastazione dell’isola caraibica. E ancora se, come molti tristemente sanno ci vorranno anni per rivedere l’Aquila che conoscevamo, ci vorranno decenni per Haiti.

In tutto questo, continuo amaramente a non capire come si possa andare a prendere il sole in villaggi turistici che alle spalle, a pochi chilometri, hanno delle bidonville ed, altrettanto tragicamente, a non capire come il mondo possa mobilitarsi all’istante per la tragedia haitiana dimenticando da decenni, è solo un esempio, quella sudanese. Ma queste sono altre storie.

P.S.: l’ultimo romanzo di Isabel Allende, “L’isola sotto il mare” è ambientato proprio nel periodo coloniale di Haiti.

Articolo pubblicato su Mentecritica

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