Quanto ho scritto pochi giorni fa sulla morte dell’amica di mia moglie ho voluto condividerlo, senza nulla togliere od aggiungere, con un mio carissimo zio(*), fervente cattolico, molto impegnato da anni sul fronte dell’assistenza a chi ne ha bisogno e persona che stimo moltissimo al di là degli ultradecennali rapporti di affetto e simpatia reciproca. Non l’ho fatto con spirito provocatorio visto che le nostre conversazioni sul tema sono sempre state ricche e simpatiche pur dovendo sempre concludere, da parte mia, che non c’è proprio niente da fare. E’ più facile credere in quel che non si vede ma di cui tutti parlano sostenendone la verità che farlo in quel che puoi toccare con mano.
Sulle prima la sua risposta è stata piuttosto prevedibile. La risposta di chi cerca di portare conforto allo smarrimento che questa cosa comporta; al che ho dovuto subito ribadire che non ero affatto smarrito e che ero e sono perfettamente conscio delle ragioni di questa morte. Il gesto comunque apprezzato e compreso è stato quindi rafforzato da una serie di scritti che qui riporto volentieri e che, almeno per quel che mi riguarda, appartengono alla stessa risma di spiegazioni che non spiegano un bel niente e che anzi confermano ulteriormente la mia radicata convinzione. Non ho (quasi) certamente le prove per affermare che non esiste alcun dio ma vivo e mi comporto come se fosse vero. Ecco quindi un estratto dalla sua mail di risposta ed il materiale che mi ha sottoposto…
Carissimo nipote, Ho indugiato un pochino a risponderti, non lo si poteva fare su due piedi, anzi - per esser sincero - non ero troppo convinto di volerlo fare (…) nella sua cruda essenzialità e tragicità, pur non si discosta dall'eterno dilemma che ha sempre assillato l'uomo: Dio com'è? E' giusto, è buono? E' ingiusto, è indifferente alle nostre sofferenze? Sai Giacomo carissimo, in un certo senso è privilegiato colui che si definisce "ateo", perché in qualche modo non se la prende con nessuno... Poi (e qui la faccenda si complica) ci sono i cosiddetti "credenti" separati però da una voragine di fondo: "credenti praticanti" e "credenti... generici", li chiamo io... Ma credenti in cosa in definitiva... che comunque Qualcuno che possa presiedere a tutto ci deve pur essere? E che se ne farebbe "quel dio" di questa affermazione? Quando io affronto questo problema - e mi costringono a farlo sempre gli altri, non mi sono mai divertito a "sfruculiare" nel cuore del prossimo... - comincio sempre da una base per così dire elementare, e cerco quindi di farlo con una specie di sorriso... Cioè: Dio, quello "vero" è SEMPRE E COMUNQUE DENTRO DI NOI FIN DALLA NASCITA, CHE LO VOGLIAMO O MENO, poi crescendo siamo liberi di fare quel che crediamo meglio per la nostra vita. E qui si aprirebbe un altro discorso che potrebbe durare per tutti gli anni che ci sarà dato vivere.
E seguita con questa lunga dissertazione riportata e che fa parte della sua catechesi che ha meritato la mia attenta lettura e, ma guarda un po’, una pazienza degna del protagonista (…)
<<Non ci sono “eroi” veri e propri nella Bibbia fino ai tempi dei Maccabei (166-160 a.E.V.). C’è soltanto la certezza ingenua che Dio è dalla parte del popolo eletto; Dio ha ragione, Dio è giusto e quindi gli ebrei hanno ragione e la giustizia è con loro. Questa fiducia elementare, che produsse una mitologia brutale ed atroce nel Libro di Giosuè (il grande condottiero che, alla morte di Mosè, introdusse gli ebrei nella ‘terra promessa’ sbaragliando ogni nemico in maniera spesso cruenta e impietosa, vistosamente aiutato dal suo Dio Jahvé. Ndr.), fu messa a dura prova nel confronto concreto con la realtà storica della sconfitta di Israele nel 597, quando il Tempio di Gerusalemme fu distrutto e molti degli ebrei furono deportati a Babilonia (l’Iraq attuale). Tale esperienza spinse i profeti ebrei a un’autoanalisi angosciata che produsse alcuni fra i più bei libri dell’Antico Testamento. Poiché gli ebrei erano convinti della propria virtù – non ubbidivano forse alla Torah che Dio stesso aveva rivelato loro? – e poiché la giustizia e la potenza di Dio erano indiscutibili, come poteva Egli aver permesso che il suo popolo eletto soffrisse quella tremenda calamità nazionale? La risposta più banale che gli ebrei non erano stati abbastanza virtuosi, non abbastanza ligi alla Torah, troppo pronti a mischiare il loro sangue con quello di altre tribù semitiche vicine, troppo negligenti nell’applicare le limitazioni alimentari – poteva soddisfare soltanto le menti legaliste e semplici … Per i profeti e salmisti che meditarono sulla questione, e per l’autore, più tardo, del Libro di Giobbe (data ignota: 450 a. E.V. ca.), il problema era molto più profondo e di bruciante attualità, ma senza risposta. La sofferenza dell’innocente sembra mettere in dubbio l’idea ebraica di un Dio eccelso e potente, un’idea difficile da sostenere di fronte a tutti i fatti che sembravano contraddirla.
<<I libri più recenti dell’Antico Testamento contengono vari tentativi di risolvere il problema che ha ossessionato gli ebrei fino a questo secolo in cui hanno patito tremende sofferenze. Ma nelle Scritture, che Gesù stesso avrebbe letto e studiato, spiccano in particolare due personaggi. Si tratta di Giobbe e del Servo Sofferente nel Deutero-Isaia.
<<Il Libro di Giobbe è il più omerico di tutti i libri biblici, ma lo è soltanto perché descrive due immortali, Dio e Satana che giocano a mettere alla prova la resistenza di un mortale. I tormenti dell’uomo virtuoso che subisce la rovina finanziaria e si ritrova coperto di piaghe, sono la conseguenza di una disputa quasi scherzosa fra le potenze celesti. Ma la reazione dell’uomo sofferente non è affatto omerica, perché Giobbe non smette mai di credere nella virtù e nella giustizia. Gli studiosi si sono domandati come il Libro di Giobbe abbia acquisito la sua forma attuale. I lettori comuni decideranno se le due risposte al problema di Giobbe siano davvero una consolazione: in primo luogo, Giobbe sa di avere un Vendicatore che, in un giudizio futuro, ricompenserà la virtù. E’ un primo accenno della nascente fede ebraica nell’immortalità dell’anima. In secondo luogo, Giobbe sa che Dio nel Suo splendore e nella Sua maestà non deve essere messo alla prova dai miseri quesiti della mente finita dell’uomo: << Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della Terra? >>, domanda Dio a Giobbe. Nondimeno, il Libro di Giobbe, proprio a causa della sua retorica, non convince del tutto. Si sconfigge da sé, e possiamo credere che il suo autore o i suoi autori lo abbiano scritto così di proposito.
<<In realtà Giobbe ha argomenti più forti dei suoi calunniatori, o di Dio stesso. A dispetto delle circostanze, dell’abbandono e, in pratica, dell’ostilità di Dio, Giobbe continuerà a credere in Dio e nella Sua giustizia. <<Anche se Egli mi ucciderà, avrò fiducia in Lui! >>; << Detesto la mia vita! Per questo io dico: “E’ la stessa cosa”: Egli fa perire l’innocente e il reo! Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti Egli ride. La terra è lasciata in balia del malfattore: Egli vela il volto dei suoi giudici; se non Lui, chi dunque sarà?>> .
<<La questione non è preoccupante per il politeista, cui sembra normale che gli dèi determinino il destino umano con malizia sadica. Ma lo è profondamente per chi crede in un Dio unico e buono che ha affermato il Suo amore per il Suo popolo e gli ha domandato di comportarsi in modo virtuoso. Questa domanda tormenta tuttora il cuore degli ebrei. Per chiunque, come Gesù, conoscesse a fondo la Bibbia, essa doveva rivestire una grande importanza, in particolare perché ai suoi tempi incombeva sul giudaismo una minaccia altrettanto grave dell’antico esilio babilonese. I Romani si erano già mostrati spietati nel governare la loro colonia ebraica e nella repressione di ogni rivolta, ed erano rudemente insensibili ai sentimenti religiosi della popolazione. In seguito, come si ritiene che Gesù avesse previsto, avrebbero distrutto il Tempio stesso e costretto il popolo d’Israele ad esiliarsi dalla sua patria spirituale per ben diciannove secoli. Chiunque parlasse di Israele a Israele durante l’occupazione romana doveva avere in mente l’antica domanda del Libro di Giobbe. Una profonda crisi riguardava l’intera nazione e non poteva essere risolta con la teoria. Per molti contemporanei di Gesù era assiomatico che Dio avrebbe salvato Israele, in un modo o nell’altro: avrebbe permesso agli insorti ebrei di rovesciare gli oppressori stranieri con la forza militare, come Giuda Maccabeo aveva cercato di fare; oppure avrebbe mandato il Suo Messia per porre fine alla storia e redimere gli uomini sofferenti d’Israele con l’inizio dell’era messianica. Gesù stesso nutriva certamente l’una o l’altra speranza, o forse entrambe, ma sembra che le abbia considerate in modo molto personale >>.
(da “ Gesù – l’uomo, la fede ” di Andrew Norman Wilson, pp.33-37)
L’anonimo autore
Nulla di più lancinante, nella Bibbia, di questo libro; nulla di più coraggioso e insieme di più poetico tra tutto ciò che ha scritto l’uomo o, si vuole, che abbiano scritto e dettato gli dei. Infatti questo lamento – requisitoria non fu e non sarà più dimenticato. Il cristianesimo vi ha letto l’esaltazione della pazienza di fronte alle prove cui Dio ci sottopone, e vede in Giobbe l’uomo dell’abbandono e dei dolori che prefigura il Cristo. Poi i tempi sono mutati, e con i tempi i lettori-interpreti.
Tu, lettore che ci leggi, hai a disposizione la tua cultura, la tua sensibilità, il tuo credo, la tua spiritualità, il tuo rapporto con Dio, e tante cose ancora: hai a disposizione tutto questo per poter leggere Giobbe nell’aspetto che più ti sarà utile …
L’autore del libro, che oggi leggiamo nella sezione dell’Antico Testamento chiamata Libri sapienziali, deve aver ascoltato più volte da ragazzo il racconto. Egli, anonimo ancora oggi, adottò il racconto arricchendolo di nuovi capitoli, drammatizzando ancor più la vicenda di Giobbe sul filo di una grande esperienza comune all’uomo innocente. Giobbe è diventato così la parabola dell’uomo che soffre. La sua esperienza è l’esperienza del dolore, Giobbe rappresenta l’uomo che lotta per la vita. Giobbe è un lottatore che cerca Dio, non per consolarsi ma per entrare nel mistero di Dio e rifarsi una nuova coscienza.
Forse l’autore era un ebreo vissuto nei campi di concentramento a soffrire la fame e la sete con la sua gente. Egli aveva conosciuto il male sottile della solitudine, del disprezzo, e insieme il male terribile della malattia e della morte dei suoi cari. Sulla sua disgrazia aveva sentito molte opinioni, molti giudizi. Aveva anche sentito parole di sapienza e di fede. Vi costruì allora la nuova storia di Giobbe, il nuovo romanzo di Giobbe.
Giobbe, personaggio popolare
Ai tempi dell’esilio, quando il popolo di Israele dovette subire la deportazione (il primo lager della sua storia), era familiare fra le famiglie ebraiche più colpite, il racconto popolare della storia di Giobbe. Lo si raccontava nelle notti buie, sotto la tenda, al rumore cadenzato delle sentinelle che vigilavano sul campo dei deportati. I ragazzi rimanevano ad ascoltare attoniti e agghiacciati dalla vicenda. Gli anziani vi leggevano il loro destino, i più giovani sollecitavano il finale della storia per arrivare al lieto fine.
Ecco dunque la storia del racconto primitivo, che, se narrata molto succintamente, occupa davvero poche righe. Riassumiamola.
C’era una volta un uomo di nome Giobbe …
Giobbe era un uomo ricco e sano, onesto e fisicamente integro. Gli erano nati sette figli e tre figlie. Il suo gregge era di settemila pecore, di tremila cammelli, di cinquecento paia di buoi e cinquecento asine.
Un giorno, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano banchettando nella
casa del fratello maggiore, entrò un messaggero: << L’ esercito dei Sabei è
piombato sui buoi che stavano arando e sulla asine che stavano pascolando. Sono scampato io solo>>.
Arrivò un secondo messaggero: <<Un incendio ha distrutto le pecore e colto nel sonno i guardiani. Io solo mi sono salvato>>.
Ne arrivò un terzo: <<I Caldei hanno dato l’assalto ai tuoi cammelli. Hanno ucciso i guardiani. Io solo mi sono salvato>>.
Giobbe stava calcolando la portata di quest’altra disgrazia, quando entrò nella sua tenda un altro messaggero: <<I tuoi figli e le tue figlie stavano banchettando nella casa del fratello maggiore quando un grande vento e un terremoto rovinò la casa. Nessuno si è salvato tranne il messaggero>>.
Giobbe si alzò, si strappò le vesti in segno di dolore, poi si inginocchiò a terra adorando Dio: << Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore >>.
Più tardi Giobbe fu colpito da varie malattie così che il suo corpo apparve a tutti come una piaga sanguinolenta. Era la catastrofe.
Il racconto popolare terminava con un lieto fine. Giobbe non perse la speranza e la sua virtù provata dal dolore fu premiata.
Riebbe la salute e il doppio di ciò che aveva. Quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Quattordici figli e tre figlie.
L’origine del male
Il primo problema che l’autore del libro di Giobbe dovette risolvere fu quello dell’origine del male. Da dove viene il male? C’è qualcuno che ti manda le malattie? le disgrazie? le sconfitte?
Questo ignoto e solitario autore, di mente assai eletta certamente, aveva “agitato” nell’intero libro di Giobbe la questione dei rapporti fra la bontà morale e la felicità terrena, ma era giunto ad una conclusione più negativa che positiva, perché riscontrando che fra i due termini non esiste sempre un collegamento infallibile aveva finito per rifugiarsi in un atto di fede nella somma giustizia di Dio.
La teologia, ai tempi dell’autore di Giobbe, aveva maturato già una prima certezza. Il male non viene da Dio, ma da <<Satana>>. La parola significa <<avversario>> e nelle parti più antiche della Bibbia è un personaggio malefico che sabota il piano di Dio accusando l’uomo di peccato dopo averlo condotto al peccato.
Nonostante l’influenza della religione persiana, dove il male è una divinità indipendente che combatte Dio con la stessa forza e la stessa potenza, l’autore di Giobbe considera Satana limitato; egli non può sottrarsi al potere di Dio e non può quindi vincere la battaglia scatenata contro Giobbe. Il male che attanaglia il corpo di Giobbe è terribile, ma Satana non ha mezzi straordinari per togliere a Giobbe la sua volontà di conservarsi innocente e di avere fiducia in Dio.
Con stile molto sottile il nuovo racconto di Giobbe (ricordate come, nella Premessa si è ipotizzato che vi furono precedenti stesure del libro di Giobbe rispetto all’attuale che si conosce) si sposta su un terreno più complesso. Da una parte il desiderio di Satana di portare Giobbe alla disperazione e all’angoscia, dall’altra Dio che veglia su Giobbe e sulla sua condizione, per la sua salvezza.
Il male distrugge ma Dio alleandosi con l’uomo lo rende capace di superare anche il dolore e la sofferenza.
Ma Giobbe era innocente?
Se Giobbe fosse stato colpevole, il problema per l’autore del nuovo racconto sarebbe stato di facile soluzione. Gli ebrei pensavano che la malattia e la disgrazia fossero punitive di uno stato di peccato. Dio manda le malattie ai malvagi e la liberazione ai giusti. Uno storpio non è storpio solo per natura, ma per il peccato di lui se il ‘difetto’ è sorto improvviso durante la sua
vita o per il peccato dei genitori, se è nato così.
Questa idea era entrata nella teologia ebraica molto presto. Già il racconto del “primo peccato” (o ‘peccato d’origine’) sembra insinuare questa concezione: siccome i progenitori hanno peccato, da questo peccato viene la miseria, la malattia, la fatica. E in parte è vero: ci sono dei mali che si contraggono, facendo il male.
Ma non era il caso di Giobbe, almeno così come compariva nella storia popolare ereditata dall’autore. Giobbe, era innocente. Gli amici che vengono a trovarlo non sono convinti: << Se Giobbe soffre ed è ridotto ad una piaga puzzolente è perché ha commesso dei peccati, e Dio punisce i peccati >>.
Il dolore innocente ha fatto sempre problema, proprio per questa logica che vuole il male derivare dal male. Ogni letteratura, anche quella moderna, ha sempre cercato di risolvere il problema con lo schema facile peccato-malattia, malattia-punizione. Perfino il cattolico Manzoni colloca alla fine del suo romanzo Don Rodrigo fra gli appestati e la peste sembra cadere su una società corrotta.
Del resto, ancora oggi è abituale la convinzione che la miseria di una zona povera sia da addebitare alle incapacità colpevoli degli abitanti, mentre la ghettizzazione - meglio dire l’emarginazione - dell’handicappato (che con belle parole usiamo chiamare ‘disabile’, anzi, negli ultimi tempi, ‘diversamente abile’), dell’anziano e dell’ammalato porta con sé, assieme a una grande dose di indifferenza, una ancestrale concezione di colpa.
La confessione di Giobbe
Non bisogna mai dimenticare che l’autore di Giobbe biblico scriveva per i suoi contemporanei, a cui ha in animo di inculcare la stima e il culto della Sapienza. Sì, la Sapienza. Una delle tante parole che noi abbiamo svalutato con il tempo e con l’abitudine.
Che cosa intende l’autore di Giobbe per sapienza? Non certo la solita maniera di considerare la realtà con gli occhi della prudenza, la saggezza dell’anziano, oppure, come potremmo pensare noi eredi del secolo della ragione, una virtù conoscitiva che ci fa esperti nella vita; ma più profondamente e semplicemente il modo con cui Dio stesso vede le cose, il suo stesso disegno di amore e di misericordia, la sua giustizia.
Giobbe possiede questo concetto. Egli confessa la sua fede in un monologo mirabile di alto valore: << Abbiamo noi la possibilità di conoscere la sapienza di Dio? di intravedere qualcosa del suo piano? >> si sente chiedere Giobbe accusato da un suo amico di aver offeso il Signore non sapendo discernere la sua volontà. << Si >> risponde Giobbe, <<Interroga le bestie e ti ammaestreranno, gli uccelli del cielo e te lo annunceranno… Te lo spiegheranno i pesci del mare. Chi non sa fra tutti fra tutti costoro che è la potenza di Dio che ha fatto tutto ciò? Egli nelle cui mani è l’anima di ogni vivente, e lo spirito d’ogni corpo umano… In lui è forza e saggezza, da lui dipendono il sedotto e il seduttore… Egli fa andare i sacerdoti scalzi e abbatte i potenti, sparge il disprezzo sui nobili e ai forti allenta la cintura. Rivela dalle tenebre le cose recondite, porta alla luce l’ombra di morte >> (12,7-25).
Ma può questa sapienza di Dio essere trasmessa all’uomo? Ecco il grande problema che il dramma di Giobbe pone all’autore del libro e ai suoi contemporanei.
<< Io sono innocente – sembra dire il nostro eroe biblico – non ho commesso peccato alcuno >>. Giobbe non aveva offeso sua moglie, non aveva maltrattato i suoi figli, non aveva sfidato Dio con opere di empietà, non aveva violato la giustizia. Era un innocente. Ma anche l’innocente ha peccato. In tutta la vicenda biblica esiste questa netta distinzione: peccato dell’empio sfacciatamente cattivo, infedele e traditore, e il peccato dell’innocente, il peccato di non avere sapienza e di non comprendere le vie del Signore.
Il dubbio di essere colpito per questo, sfiora Giobbe più volte, ed è perfino l’argomento dell’ultimo strano suo interlocutore, secondo il quale Dio punisce anche l’innocente per renderlo più innocente e quindi più sapiente.
E’ chiaro che questa soluzione avrebbe potuto dare all’autore di Giobbe la chiave per risolvere il mistero. Una chiave che sovente adoperiamo anche noi quando diciamo che il dolore è una prova che Dio ci manda per accrescere la nostra virtù. Ma è troppo scaltra la religione dell’autore di Giobbe per accettare questa soluzione che ancora una volta attribuirebbe a Dio una sfacciata abitudine del ricatto. Egli, il Dio della sapienza, sarebbe condotto a darci virtù e meriti attraverso il ricatto del dolore. Solo il dolore ci fa santi, mentre diversa è la teologia ebraica di quel tempo secondo cui non è il dolore che rende l’uomo buono, ma la sapienza di Dio comunicata all’uomo (ci sembra un dato su cui converrebbe riflettere a lungo …).
Il mistero di Giobbe nel mistero di Dio
La soluzione ci è fornita dal libro di Giobbe proprio al capitolo 28: una pagina moderna, la più moderna delle pagine bibliche dell’Antico Testamento. Essa è rivoluzionaria per quei tempi e anticipa la grande rivelazione di Cristo.
Se infatti Giobbe innocente è caduto nella miseria della malattia, se Giobbe carico di prudenza e di buoni consigli non sa capire il senso del suo soffrire, allora è chiaro che la sapienza di Dio non la si acquista né con l’oro né con la virtù, ma nella fede. La sapienza è nascosta in Dio e Dio la dà gratuitamente.
<< Dio solo ne conosce la strada e sa dove ella risiede >>.
Il mistero di Giobbe è nel mistero di Dio. Giunge infatti il momento in cui nel dramma di Giobbe entra la stessa voce di Dio. I protagonisti scompaiono di fronte alle sue parole, finalmente l’autore può dare sfogo alla sua tesi fondamentale. La verità su Giobbe non la possiede né Giobbe stesso né i suoi amici, diventati accusatori allo scopo di farsi belli, né Eliu l’ultimo personaggio intento a dimostrare che il dolore di Giobbe è un acconto che paga i suoi peccati futuri e la sua presunzione di dirsi innocente. E’ la tesi fondamentale che troppe volte è stata bistrattata dagli esegeti, ma soprattutto dai facili commentatori.
Il dolore di Giobbe non ha spiegazione. E’ nel mistero di Dio e della natura.
Giobbe non viene glorificato perché è innocente o perché ha fede, Giobbe non viene salvato perché ha vinto, Giobbe non riacquista la salute per una preghiera esaudita, ma semplicemente perché Dio vince con la sua potenza e la sua misericordia.
Dio non si conquista con l’oro o con la virtù. Dio non si vende all’uomo più paziente e all’uomo che lo compra con la sua pietà. Dio si dona perché egli è dono. Dio concede sapienza perché è Sapienza, Dio dà la vita perché è Vita.
Dio sfida se stesso
Da Giobbe l’autore biblico giunge a Dio. Potrà sembrare un assurdo, ma il problema che lo interessa non è Giobbe o il dolore, l’innocenza o la malvagità, la filosofia dell’esistenza e i problemi della solidarietà, ma Dio. Chi è Dio? Come si comporta Dio? Come parlare di Dio?
La tentazione di dare delle risposte troppo sicure è sempre stata presente nella storia della salvezza. Vediamola in alcune sue sfaccettature:
· Dio è <<Faraone>> che governa le cose? Ma Faraone non è mai stato di parola, non ha governato con sapienza, ma con la forza. Come potevano gli ebrei reduci da forme crudeli di schiavitù confondere Dio con un tiranno?
· Dio è la natura? Un concetto che gli ebrei scartano subito, un po’ grazie alla rivelazione che Dio fa di se stesso, e un po’ per esperienza personale. Di fronte a una natura arcigna, crudele e muta, come è possibile confondere Dio con le cose?
· Dio è un vendicatore? Certo in alcune circostanze questa idea ha fatto breccia nella storia del popolo della salvezza, non certo nella storia di Giobbe. Giobbe è innocente, Dio non ha nulla di che vendicarsi.
· Un Dio che gioca a battaglia con Satana? Se poteva essere questa una ipotesi valida ai tempi del racconto popolare di Giobbe non sembra però essere questa la tesi dell’autore del libro biblico visto e considerato che la vicenda si fa complessa e l’onnipotenza di Dio e la sua sapienza non ha limiti. Dio non sfida il male, anche se è il male che sembra sfidare Dio.
· Dio che sfida Giobbe? E quindi un Dio che gioca la carta della sua onnipotenza sulla debolezza dell’uomo? Diverse ‘letterature’ hanno strumentalizzato il libro di Giobbe in questo senso: << L’uomo arriva a Dio a partire dal suo malessere. Se l’uomo fosse forte non avrebbe bisogno di Dio >>. Forse alcune di queste tesi sono accennate nel libro, ma la teologia seguente alle prime stesure del racconto biblico sembra
rifiutare questa tesi. Giobbe è credente prima e durante la sua disgrazia. E il Dio di Giobbe non sembra un giocatore di carte.
Dio è salvezza per il giusto. E’ vero che Giobbe sembra meritare la salvezza a causa della sua lunga pazienza e a causa della sua fede. Ma allora se Dio premia gli innocenti che bisogno c’era di discutere così a lungo sulla situazione di Giobbe, e sui suoi malanni? Il Dio di Giobbe è invece un Dio che sfida se stesso. Non ci sono motivi perché Giobbe debba soffrire o debba guarire.
Dio sfida se stesso perché la sua Sapienza non ha limiti, non ha peso, non ha giustificazioni. E’ la sapienza del mistero. Dio è l’ incomprensibile. Dio è l’ imprevedibile, l’assoluto gratuito.
La colpa degli amici di Giobbe è di aver creduto che non esista l’incomprensibile e che l’imprevedibile non esista e non sia reale.
La debolezza di Giobbe è di aver creduto che Dio sia una persona disposta a tener conto solo di ciò che appare.
La debolezza dell’autore è di aver ricordato ai suoi lettori che Dio è mistero. Ma è una debolezza sincera.
Se Giobbe vivesse oggi
Quando don Gnocchi incontrò il dolore e la sofferenza innocente nella mutilazione dei ragazzi che avevano ricevuto nella carne le ferite della guerra, rimase sconvolto. Eppure don Gnocchi aveva visto i suoi alpini cadere in Russia, aveva raccolto i feriti e congelati. Il dolore innocente fa sempre problema. E fa problema oggi soprattutto in cui siamo abituati alle analisi o all’attribuire alla società tutte le colpe e tutte le devianze.
Se oggi Giobbe vivesse, egli farebbe ancora problema. Forse riceverebbe meno visite, e attorno al suo caso si scatenerebbero meno discussioni. La medicina, là dove la medicina è in auge, si occuperebbe non poco del suo caso, anche con risultati sorprendenti; e se il dolore fosse troppo pesante ci penserebbero i narcotici, che oggi sono anche utili a combattere il dolore.
Se un cristiano si avvicinasse oggi a Giobbe, potrebbe assumere due atteggiamenti contraddittori. Potrebbe fare a Giobbe una lunga predica sul dolore che diventa una prova di amore. Oppure potrebbe esprimere il massimo di solidarietà assistendo l’ammalato.
I due atteggiamenti vanno invece armonizzati. Non bastano le disquisizioni teologiche per dare un senso al dolore. E’ vero che dopo la Passione di Cristo il dolore ha acquistato il senso di un riscatto e di un’offerta di amore. Ma non si può “iniettare” amore con le semplici parole; l’amore è un’esperienza, non un concetto.
E’ importante pertanto per il cristiano uno sforzo di lotta contro il male, nello spirito di solidarietà e di agape. Il cristiano non accetta il male né come prova della virtù né come castigo; il male è espressione di peccato e il cristiano è un liberatore non un masochista.
Se la liberazione passa attraverso il dolore, solo in quel caso il dolore diventa veicolo di grazia. La Croce di Cristo è atto di amore, ma orientata verso la Risurrezione, e la Risurrezione è il gesto più grande di amore che Dio abbia compiuto verso l’umanità.
Il Giobbe di una volta non ha conosciuto la Croce e la Risurrezione di Cristo, ma la sua fede in Dio anticipava il tempo della salvezza.
Giobbe sapiente o paziente
E’ nata la leggenda di Giobbe paziente. Ma il testo biblico non è così categorico. Ci sono dei momenti in cui Giobbe appare nella grandezza della sua passione umana né remissivo né consolato né sconfitto. E’ vero che c’è pazienza e pazienza … Ma la sua non è certo la pazienza dell’uomo che si limita a ‘incassare’.
Nulla nel suo stato lo lascia tranquillo. La sofferenza della carne si accompagna a quella dello spirito. Ed è uno spirito che indaga, s’interroga e si difende.
Un uomo paziente come lo intendiamo noi oggi non avrebbe gridato così forte la sua pena e soprattutto la sua fedeltà e la sua onestà. Le arringhe di Giobbe sono il segno di un uomo che sfida se stesso, la propria condizione e persino gli amici disattenti e poco solidali, venuti a compiangerlo e a metterlo in imbarazzo.
Giobbe è un lottatore. Lotta contro un cattivo concetto di moralità (fare il bene per avere del bene), contro un cattivo concetto di Dio (Giobbe è convinto che Dio non è un crudele, vendicativo, umano, secondo il modo di essere degli uomini).
Giobbe lotta contro la cattiva sapienza, quella che vuol trovare una spiegazione per tutto, che divide il mondo in parti geometriche, che vorrebbe relegare la stessa religione nell’ideologia del tornaconto, del perbenismo.
Egli è protagonista della vera sapienza. Quella che gode anche nel dolore delle cose belle e sapienti del creato, la sapienza che sfida il futuro e attende la liberazione.
Giobbe, diciamo allora, è un sapiente problematico. Egli si interroga e valica anche le frontiere del sicuro in attesa di un mutamento che la storia della salvezza ha promesso per la giustizia di Dio e del mondo.
Giobbe non dice: << Soffrire è fatale >>, Giobbe non ama contemplare la sofferenza come specchio di eroismo.
Giobbe non si accontenta di dire: << Io soffro e quindi basta >>, Giobbe non si fida né di se stesso né degli amici né di Dio stesso. Dio non è il suo rifugio, ma il suo domani.
Giobbe cerca la fede non per consolarsi ma per entrare nel mistero e rifarsi una nuova coscienza. Giobbe è un debole ma grida forte, ama forte e attende un avvenire più forte.
Quale consiglio può arrivare a noi, uomini del XXI secolo? Forse questo: << costruisci la vita con pazienza e con sapienza >>.
Giobbe è un buon modello: è debole ma grida forte con Dio, ama forte e attende un avvenire più forte.
Ai giovani che lo deridevano, Giobbe diceva: << Della forza delle loro mani che ne avrei fatto? Hanno perduto la propria freschezza giovanile. Bruciano per il deserto, terra arida e orrida, raccogliendo atrepice fra i cespugli e radici di ginestra per loro cibo…>> (Cap.30,2-5).
Giobbe, l’uomo che osa “litigare” con Dio
In definitiva, chi è Giobbe? Un tempo veniva indicato come modello di pazienza, e lo si rappresentava sottomesso a Dio nell’atto di benedirlo: << Il Signore ha dato e il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore >> (Cap.1,21). Oggi, invece, molti preferiscono descriverlo come un ribelle, un disperato che grida la sua insopportabile angoscia: << Perisca il giorno nel quale sono nato […]; perché non sono morto fin dal seno materno? >> (Cap.3,3.11).
Chi è Giobbe? Giobbe è l’uomo che osa “litigare” con Dio. Ed è appunto questa “lite” che ci dà una possibile, ma chiara, chiave di lettura delle parole dei personaggi di questo dramma, perché evidenzia subito che vi è di mezzo una questione di giustizia.
Una controversia (giuridica) nasce infatti quando qualcuno si sente defraudato dei propri diritti, minacciato o leso in ciò che legittimamente gli appartiene
E’ Giobbe a incominciare, dichiarando il dolore e l’amarezza di sentirsi vittima innocente; la sua condizione di sofferenza ingiustificata diventa il principale capo di accusa. Forse Dio non sa o non può governare rettamente il mondo (Capp. 9,24; 21,7; 34,12-19), dato che la sorte dell’innocente è equiparata a quella del reo (9,22)? Come è possibile rassegnarsi a questa situazione? Finché ha respiro, Giobbe esprime il desiderio di confrontarsi personalmente con Dio (13,3; 16,18-21; 23,3-4), così da capire perché l’Onnipotente si comporti come un avversario nei suoi confronti, perché lo aggredisca senza tregua con terrori e ferite (10,2. 15-17; 13,24; 16,12-14; 30,21).
Come tutti coloro che sono prostrati dal dolore, Giobbe chiede un perché; e questa domanda diventa desiderio di incontro, pretesa di una risposta diretta da parte di Dio (12,24). Ma Dio tace. La sua trascendenza lo rende inaccessibile. Mille sono le contestazioni di Giobbe, ma Dio non replica una sola parola (9,3.16; 19,7; 30,20; 33,13).
La tensione del testo biblico è in larga parte dovuta al fatto che la protesta accusatrice di Giobbe risuona a vuoto; colui che, indignato, chiede al Cielo il perché della sofferenza innocente ode solo l’eco del proprio grido.
Abbiamo, a nostro conforto, le posizioni assunte da Giobbe: il suo lamento arrivava ad accusare Dio di ingiustizia e di violenza. Quando, però, lasciatolo sfogare, il Signore gli aprì il cuore ad intendere il Suo disegno, il lamento divenne scusa e lode.
Forse sarà bene < visitarlo > un poco più da vicino questo grande personaggio della Bibbia. Certamente ci potrà insegnare qualcosa… E’ nata la leggenda di Giobbe paziente. Ma il testo biblico non è così categorico. Ci sono dei momenti in cui Giobbe appare nella grandezza della sua passione umana né remissivo né consolato né sconfitto. E’ vero che c’è pazienza e pazienza. Ma la sua non è certo la pazienza dell’uomo che si limita a incassare. Nulla del suo stato lo lascia tranquillo. La sofferenza della carne si accompagna a quella dello spirito. Ed è uno spirito che indaga, s’interroga e si difende. Un uomo “paziente” come lo intendiamo noi oggi non avrebbe gridato così forte la sua pena e soprattutto la sua fedeltà e la sua onestà.
Le arringhe di Giobbe sono il segno di un uomo che sfida se stesso, la propria condizione e persino “gli amici disattenti e poco solidali” venuti a compiangerlo e a metterlo in imbarazzo.
Giobbe non dice mai: <Soffrire è fatale>. Giobbe non ama contemplare la sofferenza come specchio di eroismo.
Giobbe è tutto questo e altro ancora. Ma cosa ci ha davvero insegnato in definitiva? Ecco: il dolore è grazia se è redentivo. Come lo fu per Giobbe. Non si può iniettare amore con le semplici parole: l’amore è un’esperienza, non un concetto. Il cristiano non accetta il male né come prova di virtù, né come castigo: ma allora, da dove viene il male? C’è qualcuno che ti manda le malattie? le disgrazie? le sconfitte? No, il male è espressione (= conseguenza) del peccato del mondo e il cristiano è un liberatore.
Se la liberazione passa attraverso il dolore, solo in quel caso il dolore diventa veicolo di grazia.
La Croce di Cristo è atto d’amore, ma orientata verso la risurrezione, e la Risurrezione è il gesto più grande di amore che Dio abbia compiuto verso l’umanità.
Come il sole del primo mattino anticipa la qualità della giornata, così la fede di Giobbe in Dio ha anticipato il tempo della salvezza.
(*) Come nota di colore aggiungo che questo zio, fratello di mio padre, ha sposato una sorella di mia madre ed i relativi rapporti di cuginanza tra noi figli sono quindi a doppio filo!